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Ha senso continuare a parlare ancora di Sogno Americano?
Probabilmente si, visto l'enorme successo di pubblico che questo film ha riscosso oltreoceano e che sta avendo anche da noi.
Will Smith resta la "gallina dalle uova d'oro" di Hollywood e Muccino non si è lasciato sfuggire l'occasione di dirigere un'opera commerciale, di grande impatto, con dignità e stile.
Prendendo spunto da una storia realmente accaduta, ambientata in una San Francisco dei primi anni 80, il film ci racconta la storia di uno che ce l'ha fatta: Chris Gadner uno sfortunato ma capace venditore di macchinari medici ospedalieri che non riesce ad arrivare a fine mese e, nonostante tutto, ha ancora voglia di sognare.
I sogni costano fatica e tanti sacrifici, sacrifici che non è disposta a comprendere la moglie, consapevole delle difficoltà economiche e di avere un figlio di 5 anni da crescere.
La caduta negli inferi avviene improvvisamente, quando questa, stanca di una vita di stenti decide di prendere la propria strada, lasciando il marito. Chris è deciso a perseguire i suoi sogni e nello stesso tempo ad accudire suo figlio, assume su di se tutte le responsabilità, decidendo di lavorare e prepararsi con un corso di Brooker della durata di 6 mesi. Il lavoro procede stentato fin quando, non avendo soldi per pagare il fitto di casa, l'uomo e suo figlio si ritroveranno a dormire tra metropolitane o ricoveri per senza tetto.
Il sospirato happy ending è fisiologico e prevedibile ma efficace, per una storia che sa coinvolgere lo spettatore dalla prima scena.
Era dei tempi di Sergio Leone, che gli americani non affidavano la direzione di un proprio film ad un regista italiano e questo la dice lunga sullo stato del nostro cinema e sulla considerazione di cui gode oltreoceano.
Con l'eccezione di Bertolucci e di una breve quanto dolorosa parentesi di Roberto Benigni (che negli Stati Uniti, dopo il successo de "La vita è bella" non ha che collezionato flop commerciali con gli imbarazzanti "Pinocchio" e "La tigre e la neve") con critiche al limite dell'insulto, ci si rende conto che il risultato conseguito da Gabriele Muccino, ha una valenza tutt'altro che trascurabile.
Non bisogna dimenticare che lo stesso Muccino ha fatto un semplice film su commissione, con una sceneggiatura preconfezionata e con una scelta del cast dove l'ultima parola spettava a Will Smith.
Trovare similitudini con suoi precedenti lavori, quindi, non avrebbe senso, qui il suo occhio critico sulla società sembra essersi spento, facendo un lavoro di mero artigianato cinematografico, attento a non deludere la produzione e ad accontentare tutti i gusti.
Lo stile di regia, però resta immutato, immagini dinamiche, abbondante uso delle musiche e un po' di melodramma a sottolineare le immense difficoltà che affronta il protagonista.
A Will Smith va il merito un'interpretazione eccezionale, anche se già da qualche anno si è tolto di dosso l'etichetta di attore da action movie dopo il bellissimo "Alì", qui dimostra di avere la capacità di reggere due ore di film, di essere credibile evitando di strafare.
I personaggi di contorno sono decisamente troppo trascurati, ci si concentra principalmente sul rapporto padre-figlio dimenticandosi però di dare spessore alle figure che ruotano intorno, a cominciare dalla moglie, una Thilda Newton che, nonostante una buona prestazione, resta sacrificata in un personaggio descritto in modo troppo superficiale e poco realistico.
Il messaggio finale è ambiguo e la morale quantomeno discutibile ma non per questo meno interessante. Si è felici solo realizzando i propri sogni? Non basta avere una famiglia e un bellissimo figlio da accudire? La risposta è tutt'altro che scontata e va trovata analizzando la cultura americana, paese dove domina il valore del "vincente a tutti i costi", sulla realizzazione personale che combacia generalmente con il conseguimento di importanti risultati economici.
Nonostante un messaggio finale non da tutti condivisibile, il film si lascia vedere, riesce a coinvolgere, merito di Muccino che concentra la sua attenzione sulla forza dell'amore paterno, tematica universalmente condivisa, evitando così il rischio di trasformare "La ricerca della felicità" in una storia pregna di retorica nazionalista e buonismo gratuito.
La felicità è un attimo e una volta passato bisogna ritornare a cercarlo, in una ricerca che è l'essenza stessa della vita.
Siamo in presenza di una pellicola commerciale che ha tutti i requisiti per non deludere nessuno, probabilmente non entrerà nella storia del cinema, ma diverte, coinvolge ed emoziona e, quando un film riesce in questo, tutto il resto diventa secondario.
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Recensione a cura di Paolo Ferretti De Luca aka ferro84 - aggiornata al 19/01/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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