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Jean e Juliette, novelli sposi, si imbarcano sul battello Atalante con destinazione Le Havre, insieme a loro i membri dell'equipaggio: il vecchio lupo di mare Père Jules ed un giovane mozzo. Il viaggio si snoda lungo il canale dell'Oise e a Juliette, complice la noia e banali ma continue incomprensioni con Jean, la vita sulla chiatta le appare subito difficile; durante una sosta notturna, attratta da un simpatico ed estroverso corteggiatore e dall'irresistibile fascino delle luci e dai suoni della grande città, la ragazza abbandona di nascosto l'Atalante e si dirige verso Parigi facendosi trascinare dal turbinio della metropoli. Deluso ed affranto Jean decide di lasciare la moglie sulla terraferma e riprende il viaggio lungo il fiume, ma la lontananza da Juliette lo fa cadere in uno stato di profonda depressione; é Père Jules a rintracciare caparbiamente Juliette ed a riportarla sull'Atalante: l'abbraccio con Jean riporta la felicità sul battello.
Stiamo parlando della storia d'amore di una qualsiasi commedia francese? No, stiamo parlando di uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, l'arte che si veste di immagini in chiaro scuro e si muove, lasciando dietro di sé la scia nostalgica delle cose andate, irripetibili perché uniche.
L'esistenza non ha permesso a Jean Vigo di godere della sua creazione né gli ha concesso la possibilità di realizzare nessun'altra opera capace di eguagliare e magari superare l'incanto di questa pellicola: a soli 29 anni c'era la morte ad aspettarlo, ad interrompere per sempre la forza creativa di un uomo che, come sosteneva Truffaut, otteneva senza il minimo sforzo poesia filmando prosa.
Nato a Parigi nel 1905, ad appena dodici anni il giovane Jean viene segnato dalla tragica morte del padre avvenuta nella cella di un carcere dove si trovava imprigionato con l'accusa di alto tradimento; separato dalla madre, il piccolo viene affidato ad un collegio dove vive per sei anni in un clima di terrore. Questo dramma gli trasferisce una mentalità anarchica ed una predisposizione alla ribellione che, insieme ad un costante precario stato di salute, lo accompagnerà per tutta la vita.
La carriera di regista inizia quando Jean, a soli 24 anni, si presenta con la visionarietà di "A' propos de Nice" (1929) il suo primo cortometraggio, al quale seguirà la lirica tragicità dello straordinario "Zéro de conduite", (1933) autentico inno alla libertà, sostanzialmente autobiografico ed opera di culto per molti cineasti.
Ma proprio all'apice di una vena creativa che dirompente spandeva immagini di tormentata bellezza, la malattia comincia a scavare il fisico già indebolito del giovane Vigo al punto che quando inizia a girare "L'Atalante" (1934) lo spettro della morte è già presente giungendo inesorabile dopo pochi mesi tanto da non permettere allo sfortunato regista di terminare il montaggio e rendendola di fatto un'opera incompiuta.
Nonostante il parere contrario di Jean Vigo il film uscì con il titolo imposto dai produttori "Le Chaland qui passe" (traduzione della nota canzone "Parlami d'amore Mariù") ed amputato da numerosi tagli.
Vigo fece appena in tempo ad assistere al fallimento commerciale del film che la malattia completò il suo corso impedendogli di trarre gioia, in seguito, dai successivi rimaneggiamenti e dal definitivo restauro, avvenuto nel 1990, che rese finalmente giustizia al film.
E' sorprendente come la purezza espressiva ricolma di immaginazione poetica e l'incanto visivo della pellicola, possano conservarsi così inalterati nel tempo, si può dire che nonostante siano passate due generazioni le immagini de "L' Atalante" sono ancora oggi un sogno dentro il quale immergersi, così come si immerge Jean nella Senna quando, disperato, vi si tuffa per cercare lo sguardo della sua amata, regalando alla storia del cinema una sequenza straordinaria.
I sentimenti portati all'estremo, la forza disperata dell'amore, quello vero, assoluto: è questo sentimento che investe il film come un raggio di luce. E' a passione relativa alla psicologia dell'individuo in alcune scene lascia il posto alla forza naturale e primordiale dell'eros, all'attrazione sessuale che unisce, che armonizza i contrasti senza negarli, che riesce a mantenere insieme cose fra loro tanto diverse.
Guardando il film si ha come l'impressione che lo stesso Vigo si sia voluto staccare dal proprio corpo e con l'anima sola sia entrato a contemplare la bellezza delle cose, a comprendere limpidamente la semplicità e i misteri reconditi dell'animo umano senza l'ingombro della carne.
La sua anima voleva conquistare la visione delle cose: una possibilità che il destino gli ha riservato soltanto dopo la morte.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 27/10/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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