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Il film, uscito nelle sale nell'ormai lontano 1953, merita ancora oggi più di un'attenzione per varie sue particolarità.
Il regista Henry Koster può essere definito un onesto artigiano. Attivo in particolare nel decennio Cinquanta-Sessanta, Koster ha lasciato delle pellicole ben fatte, interessanti sotto vari profili anche per gli smaliziati spettatori d'oggi, basti pensare al surreale "Harvey" con James Stewart, sua pellicola d'esordio. Il film lancia come attori internazionali due giovani britannici: l'attore teatrale gallese Richard Burton e la leggiadra ed eterea Jean Simmons. Sul piano squisitamente "tecnico" "La tunica" è il primo film in Cinemascope, tecnica che permette di quadruplicare lo schermo e che quindi ben si presta a storie spettacolari di forte impatto per una platea che ama essere stupita.
Dopo questi numeri l'analisi della storia. Si tratta dell'ennesimo kolossal religioso, filone che da sempre riesce congeniale ad Hollywood, quasi per conferma le comuni radici puritane del popolo americano. La tendenza a realizzare film pseudobiblici viene reiterata soprattutto dopo il grande successo di "Quo vadis?" uscito sugli schermi nel 1949. Di solito le majors cinematografiche erano solite proporre l'adattamento sul grande schermo di episodi biblici più o meno noti o le versioni di romanzi celebri. Per realizzare "La tunica" il regista sceglie una storia minore tratta dal romanzo omonimo di Lloyd Douglas, una commistione tra il sacro, il mélo e l'avventuroso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. A distanza di cinquant'anni dalla sua uscita il film, nei suoi molteplici passaggi in televisione, riesce a ritagliarsi un posto di tutto rispetto persino di fronte a una programmazione televisiva più recente ed agguerrita.
Agli occhi dello spettatore di oggi però i limiti della storia sono altrettanto evidenti: i dialoghi sono ampollosi ed eccessivamente retorici e la recitazione è poco spontanea e decisamente convenzionale. Gli attori sono rigidi o fintamente ispirati nelle scene più drammatiche (lo stesso Burton non convince totalmente) e il doppiaggio (senza nulla togliere ai nostri doppiatori dell'epoca, tutti di scuola teatrale) contribuisce ad appesantire la storia di ulteriore inutile magniloquenza. Senz'altro Koster ha cercato di curare i particolari con grande impegno: costumi, trucco e anche utensili e suppellettili sono delle precise riproduzioni dell'epoca dei fatti narrati. Il film scade non di poco però quando una giovane intona un canto in puro inglese contemporaneo, lingua ovviamente di là da venire sotto l'impero di Tiberio!! (c'è da dire che questo però può essere considerato un particolare secondario se anche nel 2000 e passa le cartine in "Alexander" sono scritte in lingua inglese!)
Il film potrebbe seguire lo stile di Cecil De Mille in campo di genere religioso: Bibbia, sesso e avventura. Ma qui, al posto delle vergini discinte o della maliarda tentatrice quasi sempre presenti nelle pellicole di De Mille, c'è una storia che mira maggiormente a catturare il cuore delle fanciulle alla ricerca dell'anima gemella (la tenera storia d'amore tra Marcello e Diana); inoltre si vuole intraprendere un percorso più basato sullo studio della psicologia e del cammino interiore dei personaggi, sicuramente un passo in avanti nel film di ispirazione biblica.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 09/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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