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Dopo aver svolto un periodo di tirocinio presso la Shochiku (major giapponese) con registi come il grande Ozu Yasujiro, il giovane Shohei Imamura ha espresso negli anni '60 il suo talento alla Nikkatsu, major rivale, per poi fondare, dopo alcuni anni, l'indipendente Imamura Production. Imamura ha lavorato incessantemente per un decennio, ma dopo la non ottima accoglienza del film "Il profondo desiderio degli dei" ("Kamigami no fukaki yokubo", 1968) e per lo snervante lavoro fatto con gli attori che, in questo film, lo hanno scontentato (per sua stessa ammissione), il regista ha ripiegato su progetti televisivi, accantonando il cinema. Il ritorno alla regia avviene proprio con "La vendetta è mia" nel 1979, riconfermando il suo notevole talento. Già col suo film d'esordio "Desiderio inappagato" ("Nusumareta yokujo", 1958) aveva dimostrato le sue indubbie qualità ed espresso quelle che diventeranno poi le peculiarità della sua poetica. Un aspetto presente, in questo come in molti altri suoi film, è quello di descrivere le figure degradate della società: i perdenti, gli esseri imperfetti che commettono crimini con l'innocenza e la spontaneità di un bambino, presi da un impulso momentaneo, senza che dietro ci sia alcuna cattiveria straordinaria.
"La vendetta è mia" è il ritratto di un assassino, Iwao Enokizu, che uccide le sue vittime nella foga del momento, spinto da un bisogno istintivo. Alcune delle sue vittime gli fanno del bene, lo amano persino, eppure il desiderio incontrollato lo porta alla cancellazione della vita altrui. Nelle mani di Imamura il crimine smette di essere violento e crudo, divenendo una necessità impellente. Iwao solo in un'occasione non uccide la vittima designata, quando si trova in compagnia della madre della sua donna, assassina come lui, che comprende bene ciò che lo attanaglia dentro. Messo di fronte alla consapevolezza della donna - che gli dice: "Ora vorresti uccidermi, vero?" - Iwao ha un freno momentaneo ma non risolutivo. È lui che alla fine confessa alla polizia i suoi misfatti, autoinfliggendosi la pena, che altrimenti non avrebbe provato. Il racconto che Iwao fa non tralascia emozioni di alcun genere, niente rimorsi, neanche davanti alla presa di coscienza che probabilmente ha ucciso il figlio che portava in grembo la sua donna, Haru Asano, il suo bambino.
I personaggi che girano intorno al protagonista sono anch'essi dei perdenti che seguono il percorso tracciato dall'altrui volontà, perché spinti a mantenere la facciata che la società impone (cosa che accade tutt'oggi, nonostante ci si affanni a dimostrare il contrario). Queste figure non hanno il coraggio di cambiare la propria vita e prendersi quella felicità che forse meritano o quella rivincita che sotto sotto vorrebbero ottenere. Un esempio concreto lo danno il padre e la moglie di Iwao che si sono resi conto di amarsi, ma vivono un eterno status quo. Lei vorrebbe stare insieme all'uomo, che la respinge e l'allontana più per il rispetto dell'etichetta, che si deve tenere in società, che per rispetto verso la moglie.
Imamura lascia che sia una donna, Haru Asano, il personaggio che prende la decisione di rincorrere la propria felicità e trasformare la sua gretta vita in una migliore. È l'unica che dopo anni di abusi e sottomissioni, trova (nell'uomo che ama) una via di fuga, quell'aria di libertà che avrebbe sempre voluto. Non solo rifiuta la vita che sta vivendo, ma in lei c'è anche la voglia di cambiarla concretamente.
Imamura racconta la tragicità delle azioni del protagonista con lucido distacco, con impassibilità, senza dare giudizi o schierarsi; il regista descrive un quadro realistico di una società ancorata alle proprie tradizioni e mostra degli individui sviliti, che tentano di deviare la corrente, deviando se stessi. In comune tutti hanno una sfrenata voglia di vivere, col desiderio di uscire dalla melma in cui sono nati.
Altra peculiarità che qui trova riscontro è l'appagamento dei sensi. Iwao, ovunque vada, cerca e ottiene l'unione carnale, vissuta con impeto e fame atavica. Imamura delinea questo aspetto come se i suoi personaggi fossero in perenne digiuno e quello che ottengono non basta a saziarli.
"La vendetta è mia" è un film amaro, malinconico, con un'atmosfera fredda. Il maestro Imamura tratteggia la profondità dei suoi perdenti, lasciando lo spettatore sorpreso e affascinato. Si nota una capacità straordinaria nel decentrare il dramma, che è sempre in agguato dietro l'angolo; arriva all'improvviso e in diverse occasioni, senza però farlo diventare il nucleo del racconto, rappresentato dai suoi antieroi. È un film che merita più di un semplice sguardo.
Questa piccola perla cinematografica è distribuita in Italia in DVD dalla Rarovideo, una delle poche che si interessa attivamente al recupero di grandi film del passato rimasti in ombra, e non solo, provenienti da tutto il mondo.
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Recensione a cura di Francesca Caruso - aggiornata al 16/02/2011 15.08.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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