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Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
Il film narra la storia vera (edita in un libro pubblicato nel 1997) di Jean Dominique Bauby, giornalista di successo, ex marito di Celine (Emmanuel Seigner) e padre di tre bambini, che a 43 anni subisce un incidente, un devastante ictus che lo paralizza completamente, rendendolo muto e cieco da un occhio e costringendolo a comunicare muovendo le palpebre dal solo apparato visivo ancora idoneo. Il suo caso viene definito in termini medici "Sindrome da Locked In", che tradotta in italiano significa "blocco" o "imprigionamento", patologia particolarmente diffusa in seguito a una trombosi e/o tunnel carpale.
Superato il primo impatto di autocoscienza con la condizione in cui si trova, Jean ben presto impara a liberarsi della propria impotenza, conscio di poter "guidare la mente" in svariate dimensioni visive che, per quanto astratte, gli consentono di ritrovare un barlume della propria vita precedente, prima della sua prigionia corporale.
Jean vive un anno e due mesi nella stanza 119 dell'Hospital Maritime di Berck Sur Mer, capeggiato da un'efficiente staff di medici, logopediste, fisioterapiste/i e infermiere/i.
Grazie alle cure di un'infermiera, egli impara un alfabeto nuovo, l'unico mezzo rimasto di comunicazione non verbale con il mondo circostante.
Si tratta di una tecnica in cui le lettere dell'alfabeto vengono sovrapposte a seconda dell'uso quotidiano che se ne fa, e Jean dovrà sceglierne una alla volta battendo una sola volta le ciglia (in senso affermativo) fino a comporre una parola o una frase compiuta.
Nel corso della sua malattia, Jean rivede in flashback le esperienze passate, il difficile rapporto con la moglie, quello con i figli, la spensierata allegria con la nuova compagna, il rapporto con i colleghi di lavoro, passando via via da una sorta di catartica impotenza a una labile speranza di sopravvivenza. Tutto questo lo porta a decidere di raccontare la sua esperienza in un libro (quello da cui è tratto l'ononimo film) dettando attraverso il battito delle ciglia ogni parola e frase, paragrafi e capitoli successivi.
Raccontare la trama del nuovo film di Schnabel è frustante: si percepisce un distacco formale dalla vicenda, mentre nei panni dello spettatore avviene il contrario, rischiando di impaludarsi nell'emotività delle immagini, di diventare troppo fideistici nei confronti del film.
"Lo scafandro e la farfalla", opera terza del tutt'altro che prolifico Julian Schnabel (una filmografia di tre titoli in dodici anni di attività) è un'opera che rischia molto, ma che per ragioni che non potremmo giudicare obiettivamente si distacca parecchio da altri film del genere, come il "Mare dentro" di Amenabar o il misconosciuto, splendido "Son frere" di Chereau.
Per quali ragioni?
Prima di tutto la vicenda di Jean Dominique viene vissuta per un terzo del film in soggettiva: se "lo schermo siamo noi", i primi giorni in cui Jean riprende conoscenza e la sua voce comunica l'interiorità di un codice inespresso (inascoltato), il bisogno impellente di empatizzare con lui, noi spettatori assistiamo al suo dramma attraverso il suo occhio, che diventa - non dimentichiamolo - anche l'espressione inconscia della sua voce.
E' "il diario immobile di un naufrago arenato sulle rive della solitudine", a detta dello stesso Jean, o un subacqueo, o ancora un prigioniero costretto a vergognarsi di sè davanti all'amico che ha vissuto per quattro anni una prigionia ben diversa, ma altrettanto dolorosa (Jean Pierre Cassel).
E' un segno di vita che diverrà testamento, ma non nel senso definitivo del suo eutanasico "voglio morire" che Jean comunica all'infermiera prima di ritrovare, dolorosamente e faticosamente, un pur minimo (ma quanto intenso, quanto intenso) rapporto con le proprie potenzialità, se non fisiche, almeno mentali.
Julian Schnabel dirige un film che, fin dal titolo metaforico (segno di prigionia e, successivamente, di tardiva liberazione) sembra collocare lo spettatore all'interno della mente umana del protagonista, filtrando senza compiacimenti le sue illusioni, il suo dolore, il bisogno di essere "ascoltato".
E' un'opera di indubbio coraggio, dove si avverte a poco a poco la resa emotiva del regista, inerte davanti alla capacità di filmare all'interno della mente e del corpo del protagonista.
La sequenza più memorabile del film è la prima dove Jean vede la sua faccia ("E' questa la sorpresa? Vedermi?") e, contemporaneamente, la prima volta in cui lo spettatore trova il volto dell'attore che lo interpreta (un'indimenticabile Mathieu Almaric).
Ecco, in questa sequenza regista e film rompono davvero gli argini (o disgelano i ghiacci dei flashback di Jean) consentendo a Schnabel di sovvertire il suo sperimentalismo nella profonda collocazione visiva del film: il movimento della macchina da presa cattura i volti fantasma dei degenti in sedia a rotelle, l'immagine nitida trasmette un senso di clamorosa alienazione, soprattutto davanti alla sorprendente bellezza (vitalità) delle infermiere, o al gusto un po' tendenzioso e invadente dei medici (segno di vitalità anche questo, ma anche di lugubre abitudine professionale).
Da segnalare inoltre i numerosi flashback di Jean nella sua vita precedente, compreso un insolito viaggio a Lourdes che inizia con i capelli mossi dal vento della sua amante (altro retaggio di un'esperienza registica dove la forma corporale sembra emergere e persino uscire dallo schermo).
Le brevi e strazianti telefonate della stessa amante a Jean dal suo letto d'ospedale, o dell'anziano padre (un'immenso Max Won Sydow, classe 1921, che ha il coraggio di invecchiarsi anagraficamente di altri sei anni) restituiscono al film una forma di cinema in cui l'autore diventa sorprendentemente fautore del pensiero e delle risorse del protagonista.
La (sua?) voce fuori campo ci porta davanti all'esperienza più straziante, il ricordo delle persone care che abbiamo visto ammalarsi e morire, o anche l'espressiva impotenza di noi tutti davanti al dramma consumato da chi, lucido fino alla fine, sa di poter corrompere la propria attesa con il dolore di una faticosa forma di comunicativa.
C'è un solo momento in cui Schnabel perde il suo controllo, ed è quando Jean sogna di alzarsi dalla sedia a rotelle e baciare la donna che ama: è una sequenza che poteva essere tranquillamente evitata, piuttosto compiaciuta ed egocentrica, visto che è un supporto inutile e forse presuntuoso cercare di esprimere fino a quel punto i desideri (fin troppo condivisibili) di un'uomo davanti alla sua malattia.
Da segnalare comunque il sentore di libertà simboleggiato da una macchina nuova, la stessa che precede e testimonia il suo dramma, o della temibile incoscienza di una vita diversa, e soprattutto della capacità della macchina da presa di cogliere ancora una volta (fin dai tempi del "Nick's movie" di Wenders) il rito di un'atto di vita che può consumarsi per sempre, in un film, come in un libro dettato da un solo occhio: la lucidità/eternità di uno sguardo che parla.
Merito della riuscita del film va comunque, oltre alla notevole capacità tecnica del regista newyorkese, alla splendida fotografia di Janusz Kaminsky, che mima abilmente certi parametri onirici di Jean, in una dimensione aptica di grande suggestione, intervallati da musiche di Tom Waits, U2, Lou Reed, Joe Strummer.
Jean Dominique Bauby è morto nel 1997, pochi giorni dopo aver visto pubblicato il suo libro. Prima della sua scomparsa, egli ha fondato l'A.L.I.S. (Association of the Locked-in syndrome).
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 26/02/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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