Recensione lourdes regia di Jessica Hausner Austria, Francia, Germania, 2009
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Recensione lourdes (2009)

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locandina del film LOURDES

Immagine tratta dal film LOURDES

Immagine tratta dal film LOURDES

Immagine tratta dal film LOURDES

Immagine tratta dal film LOURDES

Immagine tratta dal film LOURDES
 

L'asfittica distribuzione cinematografica nostrana, che penalizza di anno in anno più grevemente il cinema d'autore estero che non provenga dai soliti registi accreditati, ancora ci regala piccoli miracoli.
È sempre più raro infatti che entro le pieghe della nostra distribuzione si riescano ad insinuare film come questo "Lourdes" – ed è lecito sospettare, purtroppo, che un film di analogo valore probabilmente non si sarebbe visto da noi in sala, se non avesse potuto contare sul soggetto e soprattutto sul titolo, che promettono a chi lo distribuisce un certo risultato commerciale, sia pur di nicchia.
È poi un altro piccolo miracolo constatare come dall'Austria arrivi una nuova autrice, questa Jessica Hausner, dopo il pluripremiato (assai meritevolmente, a nostro avviso) Michael Haneke: un'autrice che come il suo connazionale raccoglie e si fa portatrice della fiaccola di un certo cinema austero, asciutto ed essenziale, un cinema che, lavorando di sottrazione, sa esaltare la potenza delle immagini e la forza delle suggestioni in esse contenute. È un cinema che segue un fil rouge tipicamente europeo, e segue una tradizione che va da Dreyer a Kaurismaki ed Haneke, passando per Bresson, Buñuel, i fratelli Dardenne.
Facendo questi nomi, abbiamo ricompreso tutti coloro cui la critica sinora ha correlato il film della Hausner: ci riferiamo in particolare a Dreyer, Buñuel e soprattutto Kaurismak, a cui lo sguardo che la Hausner dimostra in "Lourdes" di padroneggiare sembra in particolare apparentato, per quella peculiare ironia, insieme cinica e compassionevole, di cui è intrisa una messa in scena sobria e pacata, distaccata ma controllata e lucidissima.

La vicenda ruota attorno a Christine, una giovane donna affetta da sclerosi multipla, assai dolce e – cosa che mi pare non sia stata adeguatamente sottolineata altrove – molto umile anche nel momento in cui dichiara candidamente la sua invidia nei confronti di coloro che sono liberi dal tremendo handicap fisico che le impedisce l'uso dei quattro arti.
Christine si trova a Lourdes per distrazione. Se non partecipasse a questi viaggi occasionali, la sua vita sarebbe totalmente vuota. Per lei questi viaggi rappresentano le uniche occasioni per vivere. E' una donna molto sola, tremendamente sola: ma che la solitudine non ha incattivito.

La Hauser compone attorno al ritratto di Christine quello, estremamente sfaccettato, delle dinamiche umane che si innescano in un luogo come Lourdes: descritto come un luogo esteriormente ben lontano dalla spiritualità. Senza mai calcare la mano sui risvolti materialistici e commerciali, che pure vengono denunciati allo spettatore, la Hausner adotta uno stile prevalentemente contemplativo- descrittivo: sequenze dilatate, inquadrature ampie (ne è un esempio quella con cui il film si apre, in cui con un lento zoom arriviamo a identificare la protagonista al centro del quadro, nella sala ristorante dell'albergo). Queste inquadrature sono spesso assai ricche di dettagli, gesti, accadimenti secondari: l'occhio dello spettatore è invitato a cogliere, aiutato dalla prevalente fissità della macchina da presa, una molteplicità di situazioni che fa venire in mente la studiata composizione delle inquadrature nel cinema di Jacques Tati.

A metà della diegesi (del tutto inaspettatamente, se non lo avessimo letto nelle sinossi) avviene il plausibile "miracolo": Christine, con assoluta naturalezza, recupera l'uso degli arti. Sembra essere l'ultima a meravigliarsene. Vive il suo apparente miracolo come un fatto assolutamente naturale.
Non è particolarmente devota, anzi (le abbiamo sentito ripetere, all'inizio del film, come non sia questo il genere di viaggi da lei preferito: ama piuttosto quelli "culturali", e preferisce "Roma a Lourdes"). Eppure sembrerebbe lei la "prescelta" per l'evento miracoloso. Proprio questo scatena in chi la circonda diverse tipologie di invidie, e un generale interrogativo, assai umano, sulle ragioni di una discrezionalità, che pare totalmente immotivata, della scelta divina (se di scelta divina si tratta). L'apparente non corrispondenza tra premessa devozionale e conseguenza miracolosa risulta inaccettabile al buon senso e alla logica dell'uomo, soprattutto se questa non corrispondenza viene coniugata a una volontà superiore e "giusta" come si suole immaginare la volontà divina.

Via via che il film procede, appare chiaro come ciò di cui tutti sono alla ricerca, il vero miracolo che ciascuno si attenderebbe nella propria vita, è il raggiungimento di una felicità auspicata e distante come un arcobaleno. Stupendo nella sua mestizia non rassegnata il finale, dove sulle note di "Felicità" di Albano e Romina (!), vediamo Christine accasciarsi in disparte su di una sedia (dopo essere in precedenza già caduta una prima volta). Ci era stato già insinuato, dalla commissione medica, il dubbio che il suo possa essere un fenomeno non miracoloso, ma spiegabile in termini scientifici, di recupero transitorio delle facoltà motorie. La Hausner non ci lascia nessun elemento per sostenere che sia così, però: anzi. Il finale è perfettamente equidistante, come lo è tutto il film, da ciascuna delle due possibili ipotesi, e cioè se si tratti di miracolo oppure no.
Ma non si tratta di lasciare allo spettatore la scelta. Si tratta di una programmatica, e significativa, equidistanza tra laicismo e fede (cui corrisponde – se vogliamo – l'accostamento di musica sacra e musica pop nella colonna sonora del film).

La chiave per comprendere l'opera sta secondo me in una sequenza in cui vediamo Christine (che ha già recuperato l'uso degli arti) seduta da sola, in un momento intimo di riflessione, guardare davanti a sé all'interno del santuario. La accompagna la musica di Bach, che fa da contrappunto a moltissime sequenze del film, riuscendo a conferire alla pellicola una notevole valenza spirituale. Prima la vediamo in campo lungo, poi in campo medio, sempre nella metà destra del quadro, mentre nella parte sinistra – specie della seconda inquadratura – vediamo solo due colonne. Lei è in luce, mentre il lato delle colonne che vediamo noi sono al buio, interponendosi fra lo spettatore e la fonte luminosa della cui luce è invece investita Christine. Ben lungi dal suggerire che Christine sia investita da una qualche luce metafisica, o illuminata dalla grazia, la composizione della seconda inquadratura ci mostra invece la protagonista rivolta verso l'oscurità: scruta in silenzio e senza domande l'imperscrutabile.
È questa inquadratura che ci fa cogliere con esattezza la differenza tra lei e tutti gli altri, a Lourdes: lei non chiede, non è lì per essere miracolata. Anche a miracolo (forse) avvenuto, resta quella che era, non mena alcun vanto e accoglie con umiltà il suo cambiamento.
Tutti che si affannano a capire, e lei lì che non cerca risposte.

Allora è forse questo – ed è quanto sembra suggerirci il film – l'atteggiamento corretto.

Credente o ateo che ciascuno di noi sia, riconosciamo tutti che la vita accade entro un profondo mistero, su cui da sempre l'Uomo indaga.
Il rischio in cui incorrono le confessioni religiose, e i fedeli, è quello di pretendere – e arrivare a darsi – risposte: troppe risposte.
"Lourdes" suggerisce che il mistero del vivere vada approcciato con umiltà, senza alcuna arroganza o aspettativa – lo suggerisce in modo assolutamente laico, e perfettamente evangelico allo stesso tempo.
Ecco il vero miracolo di questo film.
Viene in mente, in questo senso, un capolavoro come il "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini.
Non dovrebbe esser difficile comprendere che, se qualcuno debba essere miracolato, non sarà colui che è andato a Lourdes con la speranza come di vincere alla lotteria, ma soltanto chi, come Christine, nulla si aspetta.
Proprio questo dovrebbe essere l'atteggiamento corretto, nei confronti del mistero della vita, secondo un'ottica puramente evangelica: un atteggiamento semplice, che non pretende, che non è turbato né dall'affanno della ragione né da sovrastrutture e impalcature confessionali. Un atteggiamento molto vicino, in definitiva, a quello degli umili di Pasolini, e dei bambini del suo "Vangelo". Che il personaggio di Christine ci ricorda davvero molto.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 22/02/2010

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