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Gei-sha, in giapponese, significa "persona d'arte": nel mondo nipponico, specialmente prima della seconda guerra mondiale ma anche in misura minore oggi, la geisha è un'icona misteriosa e irraggiungibile, con il viso nascosto da una maschera di trucco come nel teatro Kabuki, e avvolta nei molti metri di seta ricamata che compongono il kimono. La geisha rappresenta un ruolo femminile che nel mondo occidentale non riusciamo a capire appieno: distante e pudica (gli incontri sessuali non sono quasi mai contemplati nelle "prestazioni" dell'artista), addolcisce con la sua compagnia le cene e le cerimonie del tè, suonando, danzando e dispensando piccole perle di saggezza che devono servire a far sentire gli uomini al centro dell'attenzione. Si dice che per gli occidentali l'infanzia, pur giocosa, sia l'età della costrizione e delle regole e la maturità quella dell'autodeterminazione, mentre per i giapponesi sembra accadere il contrario: l'uomo adulto perde del tutto la dimensione ludica ma anche la libertà personale e si ritrova imprigionato in una rete di costrizioni e di rituali, che la geisha riesce in qualche modo a sciogliere con le sue seduzioni castissime: mostrando un polso mentre inclina la teiera, ridendo dietro il ventaglio, camminando con piccoli passi di bambina.
Questo aspetto esotico e non del tutto comprensibile della cultura del Sol Levante attira da molto tempo gli occidentali e, da Puccini in poi, molti artisti hanno tentato di raccontare quel mondo inaccessibile: Rob Marshall (prodotto da Steven Spielberg, che in un primo momento avrebbe voluto essere anche regista) è l'ultimo in ordine di tempo a provare la tentazione di sollevare il sipario su questo piccolo universo, e lo fa adattando per il cinema "Memorie di una geisha", il best seller di Arthur Golden.
La storia è quella di Chiyo, venduta dalla famiglia ad appena nove anni, assieme alla sorella, a una okiya, una scuola per geishe. Spesso accadeva che le famiglie povere vendessero le figlie per avviarle a questa attività, liberandosi di bocche da sfamare e garantendo loro, se non la libertà, almeno una fonte di guadagno.
Appena giunta all'okiya e separata dalla sorella, Chiyo attira le invidie di Hatsumomo (Gong Li), geisha affermata ma infelice, che già vede nella bambina una futura rivale. È proprio l'odio di Hatsumomo a far subire alla piccola i maltrattamenti della tenutaria della casa e a impedirle di seguire l'apprendistato per divenire maiko e poi geisha. Nel periodo in cui è costretta a fare la serva dell'okiya, Chiyo incontra l'uomo che diverrà l'unico amore della sua vita (Ken Watanabe) e, mentre la voce metallica di una radio ci informa degli avvenimenti che si succedono negli anni, la bambina sboccia in una splendida Zhang Ziyi e la famosa geisha Mamhea (Michelle Yeoh) la prende sotto la sua protezione e la addestra al ruolo di maiko, per contrastare l'influenza di Hatsumomo nei salotti di Kyoto.
Già al suo debutto la giovane, il cui nuovo nome è Sayuri, è protagonista di un enorme successo e in breve (con una cesura nella sceneggiatura che lascia alquanto perplessi) diviene una leggenda vivente, scatenando in modo definitivo l'odio e il desiderio di vendetta di Hatsumomo.
La seconda guerra mondiale pone però bruscamente fine alla tradizione millenaria delle "persone d'arte" e Sayuri è costretta a rifugiarsi in un luogo sperduto, da cui tornerà grazie all'insistenza del socio in affari dell'uomo amato, per fare da intermediaria nei rapporti con gli americani, che tentano di colonizzare economicamente il Paese. Il finale romantico lascia spazio alla speranza di un futuro per Sayuri, che rimarrà comunque sempre prigioniera della sua maschera teatrale e delle sue sete preziose, in un mondo sempre più sorpassato, in cui le icone tradizionali della femminilità sembrano fossili di un tempo destinato a non tornare.
Marshall, pluripremiato dall'Academy per "Chicago", ci propone una storia che si snoda in un arco temporale lunghissimo, senza che si riescano a cogliere appieno i mutamenti che avvengono nel mondo in quegli anni cruciali (tra il '30 e il dopoguerra) e questo è un pregio: nell'ovattata realtà dell'okiya tutto giunge come una eco appena accennata e la guerra arriva come un fulmine a ciel sereno a turbare equilibri che reggono, instabili eppure secolari, all'interno di un quartiere dall'orizzonte - anche metaforico - limitatissimo. Nel film questo è reso in maniera credibile grazie all'ossessiva ripetizione degli stessi scenari urbani, dello stesso ponte, dello stesso percorso di prigione che quotidianamente le donne percorrono, quando non sono segregate nella loro casa. Ma in un film che ha la pretesa di essere filologico e si propone di alzare il velo che copre i segreti di quel mondo, molte sono le cose che non convincono: anzitutto la scelta delle attrici principali, tutte cinesi, come se avere gli occhi a mandorla fosse requisito sufficiente per rendere credibile una ricostruzione storica così particolare. Non si può negare che Gong Li sia come sempre splendida e perfetta interprete dell'infelice Hatsumomo, ma Zhang Ziyi appare come imbrigliata da un personaggio che fa del candore degli occhini blu sgranati l'unica sua espressione, e Michelle Yeoh è fin troppo "occidentale" (anche nei tratti) e sbarazzina per interpretare il ruolo di una geisha di grande popolarità. Anche gli altri personaggi sono privi di spessore e mancano della componente introspettiva che caratterizza invece il cinema orientale.
L'addestramento di Sayuri da parte di Mameha, che a mio avviso avrebbe dovuto avere una dimensione centrale all'interno della storia e renderci più comprensibile un processo di trasformazione faticoso e pieno di privazioni, si limita alla classica carrellata di immagini d'effetto - in cui non manca l'episodio buffo studiato per provocare la tenerezza dello spettatore - sottolineata in maniera eccessiva da una colonna sonora di melodie tradizionali che, già molto presente, diventa qui addirittura invadente.
La regia è a senso unico, tutta giocata sull'immedesimazione degli spettatori in Chiyo/Sayuri e nel suo amato: gli altri personaggi (esclusa Mameha, che ha il ruolo di "mecenate") non fanno che osteggiare la ragazza che, pur nella sue esistenza travagliata, mantiene costante la sua determinazione contrapposta alla dolcezza e infine, come l'acqua che scava le rocce e arriva a destinazione, conquista i cuori e il suo posto nel mondo.
Il risultato finale, anziché esaltare una figura iconica e così intrisa di significati per la tradizione nipponica, è una via di mezzo tra un'operetta e un romanzo di Dickens dove, dopo mille peripezie, l'eroe puro la vince sul mondo corrotto e invidioso, e la storia della geisha appare solo un pretesto per rappresentare da un lato la rivalità tra due donne (tema già caro a Marshall, che lo trattò anche in Chicago) e dall'altro una tenace storia d'amore, intrisa di un esotismo d'antan da cui il film, pur forse volendolo, non riesce a liberarsi.
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Recensione a cura di martina74 - aggiornata al 22/12/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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