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Walter Black (Mel Gibson) ha diretto la sua industria di giocattoli e ottemperato ai doveri verso la sua famiglia fino a quando la depressione non si è manifestata in tutta la sua forza, piegandolo a pensieri ossessivi, a volte deliranti. Il male lo ha fatto cadere in una totale paralisi, annullando la sua volontà di agire verso l'esterno. Il sociale, gli altri, tutto ciò che rende normale la vita quotidiana si è dissolto. La depressione gli ha tolto progressivamente ogni soddisfazione di vivere e di comunicare facendolo regredire in zone dell'inconscio più profonde vicine alla sfera primaria dove è facile provare sensazioni magiche e un onirico godimento di immagini-sogno, tra la visione e l'abbaglio.
La moglie Meredith (Jodie Foster) lo ha accudito finché aveva energie sufficienti per farlo, poi, affranta dai ripetuti risultati negativi ha costretto il marito, a scelte diverse, allontanandolo da casa con l'approvazione del figlio maggiore Porter che ha poca stima del padre.
Sorprendentemente Walter, nella solitudine, anziché veder peggiorare il suo stato clinico trova qualcosa che migliora fortemente la sua condizione psichica; parlando con una ridicola marionetta di castoro nella quale ha infilato il braccio destro, un pupazzo di stoffa trovato per caso rovistando tra disordinati oggetti lasciati in giro da tempo, egli ritrova in pieno la facoltà di intendere e di volere, offuscata dalla depressione, e riesce in altre parole a uscire periodicamente dal suo stato regressivo entrando nella vita del mondo reale con un Io vigile.
Egli da una parte mantiene le forme di autismo che caratterizzavano il suo comportamento prima di aver trovato il pupazzo e dall'altra mostra a tratti la guarigione, la ragione viva, quella che si esplicita verso l'esterno. E' come se in lui finalmente fossero presenti i segni di un risveglio del controllo dell'Io sulla realtà, un effetto terapeutico significativo. Anche se ciò accade solo grazie a una parte attiva del suo Io, precisamente quella più razionale che Walter esprime attraverso il pupazzo in pubblico. Egli fa parlare il castoro in una modalità ventriloqua.
Riuscirà Walter a mantenere il suo nuovo stato psichico fino a ritrovare con tutta la famiglia quella comprensione amorevole necessaria per affrontare la vita con più sincerità?
Incoraggiante ma mediocre film di Jodie Foster, autrice di opere forse a lei più congeniali come "A casa per le vacanze" 1995, "Il mio piccolo genio" 1991. Il film "Mr. Beaver "affronta con troppa semplicità il tema della depressione, un argomento clinico molto complesso privo di certezze scientifiche.
Le cause psichiche della depressione, rimangono tuttora oscure, perché labili sono i confini tra il somatico e ciò che è psicologico, tra il biologico e lo storico, tra il genetico e il biografico, e ciò impedisce diagnosi e prognosi precise; tutto diventa ipotetico, sperimentale o più o meno probabile.
Jodie Foster costruisce la sua storia filmica entrando nel merito delle emozioni e dei sentimenti di una famiglia borghese americana che in apparenza sembra avere già tutto.
La facoltà di intendere e di volere Walter la può manifestare solo attraverso il castoro di stoffa, come se in qualche modo quella marionetta lo sgravasse dal peso di dover mettere in gioco la sua abituale personalità divenuta da tempo, usando un termine convenzionale, psicolabile. Walter passa da una condizione di depressione che abbraccia tutta la sua personalità a una situazione nuova, di sdoppiamento, senza guarire e mostrando un contrasto malattia- salute, buio e luce, inedito che andava sviluppato maggiormente nella sceneggiatura allungando il tempo del film da 91' ad almeno 110'.
Anche la psicologia e la personalità del figlio maggiore Porter, ostile al padre, andava meglio precisata soprattutto portando alla luce qualche elemento storico chiave, del conflitto tra lui e Walter, invece tutto si svolge nella sequenza temporale del già accaduto, come nei film di Bergman ma senza il genio espressivo dei volti da lui ritratti bensì in un susseguirsi di intrecci che poco coinvolgono sul piano visivo. Allo spettatore non resta che veder svolgere gli effetti semplificati di ciò che è avvenuto da tempo nei personaggi.
Gli elementi della sceneggiatura idonei ad intendere i vari processi della malattia di Walter, così come si svolge nella narrazione proposta dal film, sono rari, rarefatti da un dialogo dispersivo, poco indicativo della struttura patologica del male in gioco. Ma nonostante ciò il film a tratti piace, seppur il bell' inizio, un po' da commedia brillante, stride a tratti con il resto della pellicola che tende progressivamente al tragico.
Per Jodie Foster è difficile mantenere uno stile narrativo preciso, univoco, con codici visivi collaudati, come quelli ereditati dai maestri americani fine anni '90, e non si capisce se questo limite è dovuto a carenze di studio o a compromessi di mercato concordati con i produttori. Quest'ultimi è noto sono capaci, in certe occasioni, di inseguire il gusto di mercato più passivo senza cercare di influenzarne minimamente il cambiamento qualitativo, rincorrendolo fin nei suoi meandri più desolati, riflessi di una falsa coscienza dello spettatore e impregnati di volgarità.
Peccato davvero, perché il tema del film è molto interessante e se fosse stato sviluppato con più accortezza in direzioni meglio articolate e rispettose dei codici narrativi faticosamente acquisiti col tempo dal cinema, avrebbe potuto dare molto di più rendendo magari anche omaggio al grande cinema americano degli anni 2000.
La mania di cercare l'originalità assoluta, a tutti i costi, caratterizza oggi molti registi emergenti, non solo americani ma anche italiani, i quali non si accontentano di fare qualche nuovo innesto nei modi di raccontare, mantenendosi al centro della tradizione linguistica cinematografica, rispettando la memoria cinematografica colta, cosa che ha fatto ad esempio Clint Eastwood ottenendo risultati straordinari, ma vogliono ricreare ex novo tutto l'impianto tecnico della narrazione, ignorando ogni metodo linguistico precedente. Un lavoro che risulta quindi ogni volta immane con risultati spesso scadenti che mettono a nudo i limiti formativi ed espressivi dei registi, soprattutto nel campo del drammatizzare, e del coinvolgere culturalmente.
Jodie Foster non è un genio nella regia, ha buone idee, grande sensibilità artistica, rimane anche un'ottima attrice, e questo dovrebbe aiutarla nella regia, ma purtroppo non comunica al meglio ciò che sente, trascura qualcosa che riguarda l'impianto drammaturgico e fotografico, le loro regole, le loro leggi, gli effetti emozionali, passionali, che si possono da essi ricavare e catalogare, rivivere attraverso seri studi cinematografici classici.
Mr. Beaver rimarrà nella storia del cinema un'opera molto discussa, con tematiche ambiziose, complesse, ricche anche di un alto significato sociale, ma di struttura analitica debole.
Jodie Foster anziché dare al disturbo psichico della depressione, vera protagonista del film, comprensibilità, luce e speranza terapeutica nelle sue infinite varianti compositive, tende a farla scivolare ineluttabilmente verso la tragedia, il dramma, senza essere capace, tra l'altro, di gestirne le scene.
La depressione nel film si piega bruscamente in un male acuto, abissale, portando Walter verso nuovi interrogativi esistenziali, al di là di ogni valore simbolico conosciuto, rassicurante, appesantendolo di forme di disperazione.
Jodie Foster ha avuto poco coraggio, gli è mancata l'audacia di abbozzare una soluzione alla depressione, anche solo umana, terapeutica, ad esempio proponendo una diversa forma di amore in famiglia, più vera, in sintonia con il sociale che lo contestualizza attivamente; la regista ha manifestato forse senza alcun pudore tutto il suo superficiale pessimismo sull'andamento di questa importante malattia clinica che fa ogni anno strage nel mondo, spesso senza un chiaro perché.
Un film, questo, che sarà ricordato dagli spettatori come opera incompiuta, una satira amara su una vita senza speranza, dove da una parte ci sarebbe il bene indiscusso della famiglia americana, dall'altra l'alter ego collettivo del gruppo che la costituisce che è sempre sul punto di crollare, di precipitare nel baratro del doppio.
Il film oltre a non dare alcuna soluzione alla depressione non riesce neanche a formularne correttamente i termini clinici che la costituiscono, manca nel film, anche solo approssimativamente, una struttura conoscitiva innovativa di questa affezione clinica, qualcosa capace di entrare in relazione con il sociale, trovando tramite esso anche precisazioni su alcuni motivi scatenanti della fase acuta.
La sceneggiatura del film rimane paurosamente in bilico tra psichiatria neocognitivista e psicoterapia di gruppo, tra psicologia dinamica e junghismo mistico.
In questo film per ironia della sorte forse manca proprio Freud, il maestro della psicanalisi, un autore probabilmente in grado ancor oggi di dare con i suoi scritti indicazioni fertili, suggerimenti efficaci su come formulare correttamente il funzionamento dei meccanismi psichici più importanti presenti nelle varie forme depressive, avvalendosi ad esempio di un ascolto e una capacità osservativa più rigorose, già note nel mondo più autentico della psicanalisi, e capaci di mettere in moto efficacemente le associazioni di idee e di pensieri del paziente in un gioco di apertura dell'inconscio.
Il film ha partecipato al festival di Cannes 2011, fuori concorso.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 17/06/2011 15.49.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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