Recensione nobody knows regia di Hirokazu Koreeda Giappone 2004
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Recensione nobody knows (2004)

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locandina del film NOBODY KNOWS

Immagine tratta dal film NOBODY KNOWS

Immagine tratta dal film NOBODY KNOWS

Immagine tratta dal film NOBODY KNOWS

Immagine tratta dal film NOBODY KNOWS

Immagine tratta dal film NOBODY KNOWS
 

In un piccolo appartamento di periferia traslocano una donna e suo figlio. Nessuno sa però che la loro famiglia è composta da altri tre bambini, due dei quali sono arrivati nella nuova casa dentro le valigie. A parte Akira, il figlio maggiore, che deve occuparsi della spese familiari, la madre non permette ai figli di uscire di casa per nessun motivo.
L'originalità della trama non deve ingannare. Benché assurda, la vicenda infatti fonda la sua origine nella realtà. Infatti nel 1988 i giapponesi rimasero sconvolti da un fatto di cronaca che raccontava l'abbandono in un appartamento di Tokyo di quattro bambini, diventati poi tre per la triste fatalità di una vita già sfortunata.
"Nobody Knows" parte da questo insolito e sconcertante episodio reale per confezionare una piccola storia, semplice e amara, ma tenera e innocente come i suoi protagonisti.
Il regista Hirokazu Koreeda romanza una storia addolcita nei suoi punti più brutali, senza perderne però la drammaticità.

E' la storia di un abbandono e della graduale ma completa rassegnazione di quattro bambini che si adeguano alla crudeltà e all'incoscienza di una madre ben più infantile di loro stessi. Avuti da quattro uomini diversi, amano la loro progenitrice con completa devozione, accettando le sue assenze e le sue mancanze totalmente esplicite e gratuite, senza dolersi di quel divieto, talmente assurdo da apparire irreale, che li relega perennemente tra le pareti di casa.
In primis stride, in questa visione così empaticamente inaccettabile, la dolcezza e il savoir faire materno della donna. La voce rassicurante e l'atteggiamento conciliante nei confronti dei suoi figli, che lei tratta con estrema cura nei primi momenti, sembrano rassicurare. Eppure, con la stessa semplicità con cui la donna tenta di amare i suoi bambini, risulta capace di recluderli dalla loro nascita e poi di dimenticarli, gradualmente ma per sempre. In uno degli ultimi momenti che trascorre con il figlio maggiore Akira sarà capace di ammettere di voler andare via e giustificherà la sua volontà dicendo: "Non ho diritto anche io ad essere felice?"
E' questo un mondo che riempie gli ingenui di sogni e miraggi, e questa madre appare vittima della sua stessa sventatezza. Concepisce e alleva quattro figli con un qualche progetto per se stessa che mai arriva e, invece di cambiare rotta verso la sua realtà, si crogiola nell'illusione di un nuovo, lontano e vago futuro.
L'attrice, You, si rivela particolarmente brava a rendere incisivamente l'immaturità della donna, che si cruccia e brontola come un'infante a cui non si presta la dovuta attenzione. E anche quella che sembrava inizialmente dolcezza, si rivela essere inconsistenza caratteriale e distanza dalla realtà. Sembra quasi essere una variante di Medea offuscata dalla sua follia e dal suo bisogno d'amore, la quale si rende rea dell'eliminazione sociale dei suoi figli, vendicandosi nella sua prospettiva non solo dei suoi quattro (o più) Giasone che l'hanno abbandonata, ma anche della società che la fa sentire limitata e intrappolata perché madre

I quattro fratellini si ritrovano soli. Spaesati, perché completamente indifesi di fronte a un mondo che non hanno mai vissuto né conosciuto, e incompleti, perché privi di una figura d'accudimento. Sopravvivono sotto la guida del primogenito Akira, dodicenne taciturno e serio, che si carica di tutta la serietà e la maturità necessaria a mandare avanti la baracca. E' sensibile e premuroso, attento all'economia domestica in ogni suo punto. La sua responsabilità, forse non voluta ma accettata con dedita rassegnazione, lo rende molto perspicace e realista, tanto da permettergli di intuire subito la definitiva scomparsa della madre dalla loro vita, nonostante tenti di nasconderlo ai fratelli minori con piccole illusioni consolatorie. Il suo diviene quasi subito il ruolo di un padre che mantiene unito quel che rimane della loro famiglia e che provvede alla sua sopravvivenza.
Kyoko è la figlia femmina maggiore. Afflitta e inconsolabile per la perdita di una madre che adora e che rimpiange ogni giorno, si convince della sua totale responsabilità per la fuga della madre, pensando che arrivi ad odiarla. Rappresenta, con la sua malinconia e con la sua depressione, l'espressione di tutto quel dolore che i suoi tre fratelli non sono in grado di esternare.
Shigeru e la piccola Yuki vivono con la naturalezza e la positività dei bambini ciò che gli si presenta davanti, senza smettere mai di credere che la madre un giorno tornerà, e senza smettere di essere curiosi verso il mondo, nonostante questo gli sia inizialmente precluso.

E' questa la cronaca di un adattamento. Dopo lo sbigottimento per la constatazione della prigionia di questi bambini, che vivono come fantasmi, ci si rende conto che il dramma vero e proprio è l'accettazione dell'abbandono da loro subito.
I protagonisti, perfettamente organizzati inizialmente, finiscono per trascinarsi verso la sopravvivenza con l'accoglimento silenzioso della loro condizione, che peggiora di giorno in giorno. La sobrietà e la dignità con cui questo destino di abbandono viene accettato e descritto è assordante. A tratti commovente, a tratti quasi fastidioso per la fatalità implacabile che investe i protagonisti. Si assiste, con un realismo minimale e asciutto molto in linea con la cultura giapponese, alla passività della società, che guarda con occhio distante e incredulo a questa famiglia smembrata dalle sue fondamenta.
Quando verrà chiesto ad Akira perché non avverte la polizia della loro circostanza, lui risponderà che, se la cosa venisse a galla, loro verrebbero separati e il suo rifiuto chiude ogni discussione. I quattro fratelli sono prigionieri di una casa e di una madre che non sa amarli, ma sono anche prigionieri di una società che li ignora e che arriva a considerarli un peso inutile, una seccatura burocratica da sbrigare. La loro giovane età non li rende "produttivi" economicamente, non possono lavorare, sono completamente dipendenti all'apparenza dalle azioni degli adulti. Akira se ne rende conto e prova a reagire coi mezzi che ha a disposizione; preferisce l'oblio e il menefreghismo della sua società piuttosto che vivere senza i suoi fratelli. La madre stessa è comunque figlia di un cultura fredda ed egoista che illude e corrode l'individualità fino a deformarla e portarla lontano dalla realtà. In questo mondo non c'è quindi spazio per quattro bambini che, in fondo, avrebbero solo bisogno della loro madre.

La cadenza, o per meglio dire la decadenza, degli avvenimenti è scandita da un climax ascendente di normalità inquietante, intervallata solo dall'entrata in scena di due amici adolescenti di Akira che poi egualmente spariscono, dalla presenza della solitaria Saki che si rifugia nella bisognosa amicizia dei quattro fratelli, ed infine dalla morte di Yuki che i fratelli non riescono ad elaborare perfettamente per via della loro condizione e della loro giovane età. Questi eventi, benché elementi di variazione, sembrano amalgamarsi perfettamente alla trama di base, non distogliendo dall'effetto di monotonia che è dato dall'assenza di un punto di riferimento adulto.

Il dolore traspare costantemente dalle azioni dei protagonisti ma accompagnato da un senso di misura che può spiazzare lo spettatore poco conoscitore della cultura giapponese. Questa compostezza dona un'intensità che sarebbe impossibile ricreare esplicitamente, poiché il raggio d'effetto ne risulterebbe drasticamente ridotto. In tal maniera è invece percepibile il continuo riecheggiare di una sofferenza che i protagonisti non osano pronunciare ma che investe completamente la loro esistenza. Il loro dolore si rivela dolce e limitante come la loro innocenza.

La mancanza di una sceneggiatura solida diventa in questo caso un pregio. Il realismo delle giornate dei protagonisti non è montato ad arte con picchi d'attenzione per un qualche evento, bensì lo spettatore è portato a seguire l'abitudinarietà degradante entro cui scivolano piano piano i protagonisti. Questa condizione è generata dalla staticità delle loro giornate, nonostante Akira si prodighi per la riuscita migliore.
Ciò che Hirokazu Koreeda ci offre è uno spaccato di anonima e triste vita, della quale le vittime sono dei bambini più o meno ignari del loro destino. Si scorge la necessità di una resa realistica che vuole essere asfissiante e devastante. L'effetto è quello di una silenziosa discesa agli inferi senza il consolante e improbabile happy ending quasi dogmatico nel cinema occidentale.

Colpisce indubbiamente la bravura dei giovani attori, tra i quali spicca immancabilmente Yuya Yagira, interprete di Akira, al quale viene conferito infatti il premio di miglior attore al Festival di Cannes del 2004. Lo spessore del personaggio, risoluto e maturo ma fragile, è supportato dal pathos impresso dal volto di Yagira, intenso e concentrato.

Elemento di calcolata importanza nell'economia generale del film è la fotografia. Quella di "Nobody Knows" è incentrata sul dettaglio e sul richiamo a un'intimità fatta di fiori e giochi o di angoli di pelle che parlano del movimento di un bambino. La fotografia suggerisce un mondo semplice, fatto di piccole soddisfazioni, la natura circostante o gli oggetti familiari, piccole mani che scoprono il mondo o piedini incerti che si muovono sopra una sedia. La poesia e l'attenzione con cui vengono studiate le inquadrature, dona al lungometraggio la delicatezza tipica del mondo infantile che qui viene catturato nonostante si colga smarrimento, sofferenza e abbandono.

Le musiche, curate dal duo di chitarristi giapponesi Gontiti, sono efficaci e decisive in alcuni momenti per sdrammatizzare la situazione, sfumando l'atmosfera grave in qualcosa di più simile alla spensieratezza infantile, resistente nonostante tutto.

"Nobody Knows" è un buon prodotto di cinema "umanista", lontano dagli stereotipi sia per soggetto che per resa, capace di convincere con una miscela ben dosata di tenerezza e tragicità. Sicuramente poco adatto al grande pubblico per i tempi lenti e per i lunghi silenzi tipici della scuola orientale, ma decisamente meritevole di attenzione per la qualità tecnica quanto per l'originalità tematica. Una poesia che timidamente impone se stessa alla sensibilità del pubblico.

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Recensione a cura di ele*noir - aggiornata al 29/11/2010 15.50.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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