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I cineasti danesi, è cosa nota, sono fuori di testa. Ogni qualvolta ci si avvicina ad una loro pellicola viene istintivo prepararsi a qualcosa di quanto meno insolito. Tuttavia, sistematicamente, non ci si prepara mai a sufficienza e la pellicola di turno finisce per spiazzare lo spettatore. Che piaccia o meno non è rilevante, perché se ne rimarrà sorpresi in ogni caso. "Offscreen", per esempio. Ecco, se Christoffer Boe col suo precedente lungometraggio, "Allegro", confermava quanto scritto sopra, con questo suo "Offscreen" riesce a rendere le prime righe di questo scritto forse anche troppo riduttive.
Il regista l'ha definita un'amabile e cruenta tragicommedia.
Arricchire questa lapidaria descrizione con aggettivi come malsana e claustrofobica sarebbe niente affatto fuori luogo.
Il tutto comincia con Nicolas Bro e Christoffer Boe. Nell'interpretare se stessi, il primo chiede al secondo, regista appunto, come usare una videocamera. È sua intenzione portarla in casa, riprendere ogni secondo della giornata, inquadrando e poi cercando di risolvere i problemi tra lui e la sua compagna Lene (Lene Maria Christensen, che interpreta a sua volta se stessa). Lo strumento però, con l'andare del film, acquisterà un peso sempre maggiore nella vita di Bro, fino a divenire per lui il centro della sua esistenza, tanto che la sua compagna lo abbandonerà, cosa che poi faranno anche tutti i suoi amici, lasciandolo solo con la sua ossessione.
Se per la sua precedente pellicola Boe aveva scelto uno stile rigoroso e ricercato, pur optando per la telecamera a mano, questa volta si limita ad "affidare" una videocamera digitale alle mani inesperte del protagonista, dando vita ad una sorta di mockumentary ricostruito con footage girati dallo stesso Bro. Non è un semplice mockumentary, tuttavia; sono, infatti, fortemente presenti elementi del cinema di genere, che rendono la pellicola, di fatto, una tragicommedia, citando lo stesso Boe, tanto leggera e a tratti superficiale nella prima parte quanto disturbante e angosciante nella seconda. La dicotomia tra queste due parentesi all'interno di "Offscreen", seppur perfette in termini di dialogo tra le stesse e conseguente evoluzione della trama, oltreché della psicologia del personaggio, rappresenta al tempo stesso un limite.
Girare un'intera pellicola in tal modo, con la videocamera nelle mani del protagonista, significa sfiancare lo spettatore; significa, più precisamente, volerlo sfiancare, volerlo portare ai limiti della sopportazione. Non è una caso che durante la proiezione a Venezia molti abbiano abbandonato la sala molto prima della fine del film. Basti pensare ad un semplice filmino: visivamente non si riesce a sopportarlo per molto tempo; in questo caso a rendere ancor meno sopportabile la visione vi è il fatto che essendo lo stesso Bro a riprendere, le inquadrature proposte sono assai confusionarie, fatte di primi piani che diventano più che altro dettagli, dato che si finisce per guardare magari una guancia più che il volto dell'attore. È all'interno di questo contesto registico che la prima parte non riesce a non trascinarsi. Inizialmente, infatti, questo terzo lavoro del regista danese altro non è che una commedia. A tratti, anzi, non è neanche tale. Si limita ad essere, appunto, un mockumentary senza spunti interessanti, né in termini di sceneggiatura, né di dialoghi, sulla vita di coppia di Nicolas Bro. Conseguenza diretta di ciò è la totale mancanza di coinvolgimento dell'intero periodo, che già si seguirebbe a fatica con una regia più ricercata, ma che, con la videocamera, diviene davvero difficile da sostenere.
Va detto anche, però, come si accennava inizialmente, che in un'ottica d'insieme la parentesi filmica in questione funziona senza ombra di dubbio. Boe, infatti, gestisce perfettamente i tempi che scandiscono l'evoluzione negativa del protagonista, la sua discesa agli inferi, ai quali giungerà attraverso quella videocamera che è ormai una morbosa ossessione. Sarà proprio questa ossessione, almeno inizialmentee, a suggerire allo spettatore il dubbio che oltre alla stessa vi sia da qualche parte in Nicolas Bro quel classico seme della follia, pronto a crescere e ad imporsi in qualsiasi momento. Ma all'inizio, appunto, non è che un suggerimento.
È solo con l'andare del film che la sceneggiatura, dopo aver preso maggiormente corpo, comincia a presentare delle sequenze che rendono il suggerimento di cui sopra ben più che un suggerimento, pur non venendo meno quell'incapacità della pellicola di coinvolgere fino in fondo chi guarda. È su queste basi che "Offscreen" giunge al suo segmento conclusivo, quello in assoluto più riuscito, tanto da rendere degno di nota l'intero lungometraggio.
Con l'ultima mezz'ora il volto dell'opera di Boe cambia quasi completamente. I toni divengono più cupi, l'atmosfera decisamente più malsana e le scelte registiche particolarmente funzionali. Non che in precedenza tali scelte non trasmettessero un senso di claustrofobia, palesemente cercato dal regista, oltretutto, però in quest'ultima parte non è più solo fastidioso ma anche soffocante e disturbante. L'ossessione del protagonista si riflette nello spettatore come l'ossessione di dover, al contrario, allontanarla quella videocamera, come la necessità di prendere aria, di respirarne una diversa da quella marcia e maleodorante che respira il protagonista e alla quale la regia tiene invece incollati. Quanto avvenuto fino a quel momento, infatti, esplode nella follia di un protagonista che non riesce più a trattenere e a gestire il proprio fallimento, così come il maniacale bisogno di dover riprendere ogni secondo della sua vita. Boe rinuncia alla videocamera come unico occhio sul protagonista e fa riempire a Bro la casa di telecamere, portando l'ossessione al suo livello più alto. Non ci sono più zone d'ombra. E allo stesso modo non ce ne sono più neanche per la sua follia, che si rivela in tutta la sua potenza distruttiva e autodistruttiva. La scena di Nicolas che si aggira delirante per la casa incelofanata, nudo, con un coltello che usa contro il nulla, quel nulla che lo sta schiacciando, e con in sottofondo le parole del videomessaggio di Lene come scintille alla base di quell'esplosione definitiva di follia, è altamente disturbante. Aspetto, questo, peraltro assai curioso se si considera la goffaggine palese del protagonista, che, tuttavia, Boe riesce a non rendere parodistica e quindi non deleteria per l'aspetto più nero della pellicola che tanto dà alla stessa.
Parte del merito, in questo senso, va ovviamente anche a Nicolas Bro ("Le Mele di Adamo", "Allegro") e alla sua interpretazione. Particolarmente conosciuto e apprezzato in Danimarca, offre un'interpretazione soggetta anch'essa alla stessa divisione fatta per la critica alla pellicola. Se nella prima parte non risulta del tutto convincente, con parentesi in cui sembra più caricaturale di quanto dovrebbe, nella seconda parte, invece, fa suo il personaggio e contribuisce alla riuscita del segmento conclusivo di cui sopra.
L'altra faccia di "Offscreen" è la provocatoria riflessione sulla finzione filmica, sul ruolo ormai preponderante delle immagini. All'inizio il protagonista, spiegando a Christoffer Boe le ragioni che l'hanno portato alla scelta di riprendere la sue giornate, dice "I've been having this thought of being seen, or actually the opposite, of not being seen" ("Da un po' di tempo penso alla possibilità di esser visto, o più precisamente, al contrario, di non essere visto"). Con essa sembra che Boe avvicini il sentirsi vivi, il sentirsi presenti all'essere ripresi, quasi fosse, la testimonianza video, una conferma della propria esistenza. Ne consegue, andando incontro gli intenti della pellicola, che l'assenza di tale testimonianza si traduca, nella mente del protagonista, nella dimostrazione contraria, ossia la non esistenza, o comunque l'indifferenza del mondo nei suoi confronti ("... di non essere visto"). Di qui l'ossessione di Nicolas, che Boe decide di nutrire fino all'ultimo, quando qualcuno prende in mano la telecamera che Bro, picchiato a morte, aveva abbandonato e lo inquadra nel secondo bagno di sangue della sua giornata. Senza quella telecamera Bro avrebbe smesso di esistere ben prima, mentre il regista danese sembra voler accontentarlo, facendolo sentire vivo anche in quello che in tutta probabilità è il momento della sua morte.
Forse questo è il modo che ha Christoffer Boe di criticare l'eccessiva morbosità nei confronti della vita mostrata in televisione, ora con reality show ora con servizi che inquadrano da vicino ogni sorta di notizia, con particolare attenzione a quelle violente e tendenzialmente malsane. Addirittura Boe, autocitandosi, riprende la sequenza in cui Nicolas Bro recita in "Allegro", cacciandolo dopo aver visto la videocamera nelle sue mani durante le riprese. Ulteriore sottolineatura del concetto per cui la realtà tende sfumare in quella filmica e viceversa.
Oppure, più semplicemente, il regista danese non ha voluto dire niente di tutto ciò, ha usato una tecnica diversa per creare questa sua tragicommedia e il resto non sono altro che sovra-interpretazioni.
Resta, quindi, una pellicola girata in maniera originale (allora "REC non aveva ancora portato il mockumentary di genere sul grande schermo) o comunque insolita, la cui riuscita è ostacolata dallo scontro tra una prima parte spesso debole e non coinvolgente ed una seconda, al contrario, decisamente penetrante, in cui le scelte registiche rivendicano prepotentemente il loro ruolo. Più in generale, il regista danese sembra non aver ancora trovato la sua dimensione definitiva, come dimostra anche la sua ultima pellicola, "Everything Will Be Fine" (2010). Se riuscisse a non rovinare, seppur solo in parte, quanto di buono c'è nei suoi lavori con scelte molto meno apprezzabili, Christoffer Boe sarebbe, all'interno dell'attuale panorama cimatografico, un regista particolarmente interessante.
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Recensione a cura di K.S.T.D.E.D. - aggiornata al 28/02/2011 11.40.00
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