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Guido, un quarantenne architetto affermato nel suo ambiente ma un po' nevrotico, privo di affetti veri e profondi, divorziato con una figlia piccola, compensa i suoi umori spesso depressi cercando di godersi una vita convenzionalmente desiderabile, supposta dai più bella e invidiabile. Egli è intento a soddisfare un desiderio estetico che sul mercato funzioni bene, magari spopoli, come appunto è ciò che viene rappresentato nell'immaginario collettivo dalle belle donne disponibili ad una storia anche breve e le auto di lusso ultimo modello.
Sia la ex moglie che la bambina sua figlia, Guido non le vede che raramente, cosa questa che gli fa perdere, in particolare verso la piccola, ogni capacità comunicativa.
Guido è ossessionato da ricordi che giungono improvvisi, deprimendolo, secondo una logica inafferrabile, sono immagini martellanti che tessono un vissuto passato in una forma mal risonante, nostalgica, che vedono lui quando era un bambino e si rapportava intensamente, magicamente con il padre poi morto.
La figura paterna a un certo punto tende a scomparire a poco a poco, come se fosse presa in un gioco misterioso, complesso, dominato dalla rimozione che è funzionale all'inconscio, un gioco che risveglia una psiche più profonda che si muove, freudianamente, lungo delle leggi naturali, inesorabili, come quelle del principio del piacere.
Quel passato, non più comprensibile e impossibile ormai da accettare nei suoi risvolti più emozionali, si pone in netto contrasto con la vita presente, fatta di una ricerca estetica forte e decisa. Il risultato finale è una dissociazione, una sorta di due tempi dell'emotività, una positiva e una negativa la cui sintesi, rispetto all'esigenza di avere una consistenza reale di piacere e di affettività, è fragile: tanto che poco può lenire del dolore di Guido.
Un giorno la sua ex moglie, Silvia, gli porta a casa la figlia Arianna, per tenerla paternamente con lui per una notte. Guido è imbarazzato, spaesato, quasi sconvolto, sa che gli è impossibile comunicare con la bambina di sei anni che vede in lui un fantasma di padre, del tutto rimosso nei suoi aspetti emozionali e simbolici più significativi, lui è un genitore mancato per la bambina, forse per lei Guido è un padre assente del tutto inspiegabilmente.
Guido è per la bambina, ormai, solo un mito paterno offeso con cui lei può solo fare finta di poter ritornare a ricercarne l'amore o a rapportarsi amichevolmente in modo spensierato.
Guido sta montando uno specchio e quando torna in camera per completare il lavoro, non trova più il cacciavite: lo cerca pazientemente, aiutato anche dalla piccola Arianna che però all'improvviso sparisce. Guido rimane stupito, come invaso da una irritazione cupa e profonda accompagnata da un sentimento penoso di perdita. Tutto all'improvviso gli è chiaro, egli sta lottando per conquistare o costruire un'identità di genitore divorziato, del tutto rimossa, una identità nuova fondamentale per ricomporsi in una unità psichica e morale.
Inizia così una onirica e surreale ricerca all'ufficio degli oggetti smarriti.
"Oggetti smarriti" è un film del tutto particolare, cui il regista - con la sceneggiatura di Giorgio Fabbri - dà uno spessore psicanalitico ricco di raffigurazioni metaforiche e metonimiche che possono essere interpretate o guardate semplicemente per i loro effetti emozionali più diretti, surrealisti.
Protagonisti del film sono Roberto Farnesi, Giorgia Wurth (nel doppio ruolo di ex moglie di Guido e centralinista dell'ufficio oggetti smarriti), Chiara Gensini e Michelangelo Pulci.
Giorgio Molteni è da tempo un regista televisivo affermato, già autore anche di due lungometraggi interessanti come "Il servo ungherese" del 2003 (insieme al regista Massimo Piesco), drammatico, e "Legami sporchi" del 2005, thriller.
Il regista sfugge con questo film ad ogni precisa catalogazione stilistica, mettendo in campo un linguaggio visivo di estremo interesse onirico ma molto attento anche a mantenere aperta una visuale cinematografica intessuta di simboli collaudati, ricca di riguardi verso lo spettacolo, impregnata qua e là, tra le curatissime righe del montaggio, di omaggi fotografici e stilistici a quel cinema che ha mostrato nella storia la parte migliore di sé proprio nell'intrattenimento.
Giorgio Molteni si muove nell'ambito del cinema indipendente, mantenendo quindi una invidiabile libertà espressiva che valorizza al meglio le sue capacità artistiche di regista e coautore.
Il film si svolge a Savona, ambientato verso la fine degli anni '70, ed è girato nella zona nuova della città, lato porto, denominata "Darsena", precisamente nel quartiere di vetro con il famoso grattacielo di cristallo ideato dall'architetto spagnolo Ricardo Bofil.
Il film è consigliato a chi ama nel cinema originalità e freschezza di idee, quest'ultime non disgiunte dal saper cogliere riflessi importanti del costume dei tempi presi in considerazione nella narrazione.
"Oggetti smarriti" un po' più filosoficamente sembra voler dire che in fondo gli oggetti vengono smarriti, come insegna Freud, quando diventano metafore di una vita problematica o di logiche desideranti e difensivistiche più profonde in atto nell'inconscio.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 01/08/2013 12.49.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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