Recensione ordet regia di Carl Theodor Dreyer Danimarca 1955
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Recensione ordet (1955)

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locandina del film ORDET

Immagine tratta dal film ORDET

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Nell'arco di una intera giornata, nella fattoria dei Borgen si intrecciano le vite di vari personaggi che discutono soprattutto di religione. Ma su uno di loro viene pronunciata una profezia di morte.

Ordet di Kaj Munk

Per rintracciare la genesi di Ordet è inevitabile fare un passo indietro lungo quasi trent'anni dall'uscita del film nelle sale. Nel 1925, Dreyer assistette al dramma "Ordet" di Kaj Munk e ne fu immediatamente colpito. In particolare ammirò le modalità con cui i personaggi della piéce esprimevano le loro idee paradossali e le loro argomentazioni contrapposte. Nella sua lunga carriera, il regista danese ha sempre avuto un rapporto privilegiato con le fonti letterarie delle sue opere, e Ordet non fa eccezione: la scritta in corsivo "Ordet di K.Munk" campeggia nelle prime inquadrature in vece dei più classici titoli d' apertura. Tale ammissione di fedeltà al testo originale è però solo parzialmente confermata dallo sviluppo del film. Rispetto al dramma, infatti, il film "ammorbidisce" i toni delle discussioni e le reazioni dei personaggi: le critiche contro la religione e la chiesa del pastore sono notevolmente edulcorate e la colluttazione a seguito del litigio tra Peter il sarto e Borgen evitata. Inoltre, Dreyer interviene direttamente attuando due importanti cesure: in primo luogo, il passato di Johannes non viene rimembrato dal padre (la sua "pazzia" è riconducibile al trauma subito per la morte della sua fidanzata e per il susseguente tentativo fallito di risuscitarla); in secondo, non vengono forniti dubbi sul decesso di Inger (nel dramma il medico denuncia un'analisi superficiale da parte dei clericali). In ultimo, il regista lamentava una debolezza del dramma nella "guarigione" di Johannes, che, in rispetto di una coerenza interna dell'opera, doveva compiere il miracolo nella sua condizione di "pazzo". Considerando in toto questi elementi, se ne deduce che Dreyer ha cercato di eliminare spiegazioni psicologiche e razionali alla "resurrezione" di Inger, accentuando la grandezza dell'evento principale del film: il "miracolo" di Johannes

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La parola di Dreyer

Tuttavia Dreyer non ha mai parlato di "miracolo" riferendosi all'atto compiuto da Johannes. Secondo il cineasta, le scoperte scientifiche di inizio secolo avevano legittimato e dimostrato il potere della psiche, considerato dal regista una vera e propria "quinta dimensione" dopo quelle dello spazio e del tempo (la quarta). Nel film, il mezzo con cui la psiche si rende manifesta è proprio la parola ("ordet" in danese). Esaminando la filmografia di Dreyer risulta alquanto difficile trovare un'opera in cui il testo scritto assuma un'importanza marginale. A volte inserito nella diegesi, altre volte testimonianza e quindi prova della veridicità della diegesi stessa, il libro, oltre a legittimare l'artisticità del medium cinematografico, rappresenta per Dreyer quell'elemento con cui è iniziata la sua carriera e che l'ha introdotto nel mondo del cinema (all'inizio curava gli adattamenti, ricercava e comprava i diritti dei testi "filmabili"). Ordet non fa eccezione, in quanto il personaggio principale è un vero e proprio testo parlante: ogni sua frase è una citazione della Bibbia. Inoltre, ogni singola "previsione" che qualsiasi altro personaggio pronuncia, assume il valore di una vera e propria profezia e permette al film di avanzare nel suo sviluppo narrativo per mezzo di tali sentenze che si trasformano quindi in prolessi. L'inevitabile "scontatezza" che questo comporta non viene però notata ad un prima visione, in quanto il personaggio che più di ogni altro proferisce profezie (Johannes) viene ritenuto "pazzo" da chi gli sta attorno, e le sue parole quindi poco attendibili. Dalle varie prolessi non è escluso neanche l'evento centrale del film, anticipato dalla lettura in casa di Peter il sarto del passo evangelico sulla resurrezione del figlio della vedova di Nain. I personaggi, in accordo al pensiero di Dreyer, incarnano allora un nuovo tipo di uomo che è l'evoluzione dell'homo sapiens: un essere capace di modificare la realtà attraverso il proprio pensiero, un individuo che non deve ricorrere alla preghiera perché è lui stesso capace di realizzare i propri scopi (e anche, se necessario, i "miracoli").
Unitamente alla parola, anche lo sguardo esercita un simile potere: se in Dies Irae lo sguardo di Anne uccide Absalon, in Ordet è lo sguardo di Maren, la più grande delle figlie di Inger, a ridare la vita.

La pazzia di Johannes

Essendo il vero è proprio "profeta" del film, Johannes può essere considerato il deus ex machina dell'opera: nel prologo assistiamo alla sua fuga notturna, nell'epilogo Johannes torna a casa guarito. Il ruolo da protagonista gli viene attribuito anche dallo stile di ripresa di Dreyer, che inquadra il personaggio secondo modalità che rendono "credibile" la sua natura "divina". La prima inquadratura dedicata a Johannes lo pone in uno spazio esterno (la campagna) e lo contestualizza in una ipotetica volta celeste (la mdp è rivolta dal basso verso l'alto). All'interno delle mura domestiche la sua posizione non è mai precisa e ciò rende la sua presenza sfuggevole. E' una presenza assolutamente evanescente e allo spettatore non è dato sapere dove egli si trovi. La mdp non lo segue neanche quando è il solo a parlare e anche i raccordi degli sguardi non rispettano le convenzioni se Johannes è in scena. Il montaggio del film segue le "condizioni" di Johannes: tutte le regole classiche vengono accantonate in favore di lunghi piani sequenza costituiti da carrellate con movimenti ad arco (arc-and-pan movements, Bordwell) della durata media di un minuto. Con la "guarigione" di Johannes lo stile torna alla classicità : la sequenza finale, che riunisce tutti i personaggi della vicenda in un finale corale da tragedia classica, si compone di ventidue inquadrature (su 114 totali) molte delle quali dedicate a Johannes, la cui posizione all'interno della camera mortuaria è ben definita. Anche lo sguardo di Johannes sembra essere tornato alla normalità e non è più assente. Ma è solo un'apparente guarigione momentanea, poichè lo sguardo assente ricomparirà subito dopo la resurrezione di Inger, e nuovamente la mdp sarà incapace di definire la posizione di Johannes.
Non potendo, per sua natura, rappresentare una differenza così importante dal testo originale (in cui il "profeta" guarisce completamente dalla sua pazzia), Dreyer , probabilmente, ricorre a tali scelte stilistiche per mettere in scena il "suo" Ordet, in cui la guarigione di Johannes diventa opinabile pur di avallare le proprie idee sull'uomo nuovo, la cui istanza irrazionale non ne è un aspetto negativo.

La questione religiosa

Nonostante sia stato classificato di frequente come film "cristiano", Ordet trascende qualsiasi categorizzazione semplificativa in virtù di una retorica ben congegnata in realtà impossibile da attribuire ad un qualsiasi pensiero religioso in particolare. E' indubbiamente un film sulla religione e sulle infinite problematiche che la fede (nonché il bigottismo) trascina con sé. Da un punto di vista strettamente religioso, tutti i personaggi sono attentamente definiti: il medico fiducioso nella scienza, il padre tradizionalista, il figlio agnostico o in preda a delirio mistico, ecc. La loro filosofia di vita risponde alle diverse tipologie di fede riscontrabili nell'uomo, che spaziano quindi dall'ateismo al più totale bigottismo. L'intreccio di queste diverse opinioni in merito non viene però risolto neanche dal "miracolo" di Johannes. La consapevolezza appresa dai due "padri" (Borgen e Peter) che esiste un solo Dio "eterno e immutabile" o la ritrovata fede di Mikkel si dirigono comunque verso strade opposte da un punto di vista prettamente religioso, conservando quindi quella diversità di vedute (su cui il film si basa) che trovano un unico e limitato punto di incontro. Tuttavia la posizione di Dreyer nei confronti della chiesa, in quanto istituzione religiosa, è talmente chiara da cassare la definizione di "cristiano" attribuita al film. L'unico personaggio se vogliamo"negativo" è proprio colui che di mestiere fa il religioso, ovvero il pastore. Egli non solo dichiarerà di non credere nei miracoli ma sarà anche l'unico dei presenti nella camera mortuaria a tentar di impedire la risurrezione di Inger. Durante la preghierà sarà proprio la sua sagoma a proiettare un'ombra di morte sul corpo della donna. La religione "ufficiale", o meglio ancora, l'istituzione religiosa diventa quindi sinonimo di morte e persino di agnosticismo. Se c'è una credenza che al contrario viene esaltata ad alti livelli all'interno del film essa si fonda sull'amore. Questo sentimento è la struttura portante di tutta la diegesi: è in primo luogo per amore che Anders chiede la mano di Anna o se Inger è capace a stare con un marito che non condivide la sua stessa religione. Soprattutto, è l'amore di una figlia (Maren) per la madre che permette il "miracolo" di cui allora Johannes diventa solo il mediatore. Se privo di amore (coniugale) perfino il tempo della vita si ferma (alla morte di Inger i battiti dell'orologio in casa Borgen cessano) per poi riprendere una volta ristabilito il rapporto sentimentale originario (una tematica ripresa pedissequamente da "L'angelo del focolare"). Amore e fede giungono perfino a scontrarsi fino ad escludersi a vicenda: Borgen è fedele ma non ha mai amato, al contrario Mikkel e Anders mettono la religione in secondo piano e quindi possono amare. Quanto detto finora è sufficiente a far crollare qualsiasi convinzione sulla presunta cristianità dell'autore, che mostra di certo radicato interesse e profonda conoscenza nei confronti della religione ma preferisce schierarsi romanticamente dalla parte del "sentimento" per eccellenza. Il film che più d'ogni altro Dreyer voleva girare, Jesus, non deve trarre in inganno da questo punto di vista: il plot sarebbe stato incentrato sul processo di condanna del messia e non tanto sulle sue opere. Se Dreyer utilizza spesso tematiche religiose è perché ama far muovere i propri personaggi entro mondi rigidamente organizzati, in cui lo scotto per un eventuale sgarro è punito severamente.
La religione, con tutti i suoi riti, le sue regole e i suoi pregiudizi rappresenta per Dreyer un contesto perfetto per ambientare le storie che predilige, ovvero quelle in cui un singolo individuo si pone contro un sistema preorganizzato violandone alcuni dettami e pagandone le conseguenze. A suggello dell'argomentazione, è necessario citare la frase cardine di Gertrud, film con cui Dreyer chiude la propria carriera: "Io credo al godimento della carne e alla solitudine irreparabile dell'anima".

Il film nell'opera di Dreyer

Definito il suo film più riuscito da parte dall'autore stesso, Ordet, insieme con La Passione di Giovanna d'Arco è il lungometraggio di Dreyer che ha ottenuto maggior risonanza al di fuori dei confini danesi. Se è ipotizzabile che il successo della Passione sia dovuto a delle scelte stilistiche assolutamente innovative per quegli anni, nel caso di Ordet è più probabile che il successo internazionale (vinse il Leone d'Oro nel 1955) sia nato dalle tematiche che il film affronta. Nei mondi dreyeriani, dominati dalla cosiddetta "causa impersonale"(Bordwell), il protagonista è sempre colui che si oppone all'equilibrio prestabilito. In Ordet, la causa esterna è quella più grande, l'assoluto stesso. Johannes, che rompe le convenzioni comuni dichiarandosi il Cristo in terra, è destinato alla derisione anche da parte dei suoi familiari. La sua libertà è persino frutto di un coraggioso atto di volontà del padre, che si rifiuta di rinchiuderlo in un manicomio. Unico esempio nelle opere di Dreyer, Johannes è però una vittima che può vantarsi di prendere una parziale rivincita, una volta compiuto il miracolo. Ma, come abbiamo visto, la sua guarigione è solo momentanea e la sua "pazzia" non tarderà a manifestarsi nuovamente (solo però da un punto di vista stilistico). I personaggi che simboleggiano l'ordine o l'istituzione sono quindi sempre aggettivati negativamente : al pari dei giudici di Giovanna d'Arco, il pastore di Ordet condanna Inger ad una fine tanto biologica quanto inevitabile. Dreyer simpatizza con i vinti, con i condannati, e l'aura di credibilità con cui riveste il personaggio di Johannes ne è la prova.
Giudicato nel suo complesso, Ordet si pone come penultima tappa del percorso evolutivo di Dreyer. Le differenze con i primi film sono evidenti e la sua ultima opera denuncia un ulteriore passo su quella strada che il regista aveva ormai già imboccato da tempo. La lunga durata delle inquadrature, la recitazione degli attori e il ritmo piuttosto lento sono caratteristiche che Dreyer sviluppa a partire da Dies Irae e che trovano il loro compimento finale, portate forse ad un livello quasi spasmodico, in Gertrud. In Ordet però Dreyer non accentua in modo tanto radicale le sue scelte anticlassiche concedendo una visione "non ostica" allo spettatore del film. Anche se David Bordwell giudica Dies Irae il film più riuscito di Dreyer, Ordet non può di certo essere considerato inferiore. Di certo il primo vanta una struttura più armoniosa, una diversità di tematiche e un equilibrio formale che il secondo non possiede, ma la fascinazione che lo spettatore prova durante la sua visione è incomparabile. La grandezza di Ordet sta anche nel coraggio del suo autore. Figlio illegittimo, impossibilitato a conoscere la propria madre (morta prematuramente), e allevato da una famiglia di rigidi luterani, Ordet è l'estremo, romantico desiderio di un figlio di risuscitare la propria madre. La piccola Maren incarna allora il piccolo Carl Theodor. Il cinema, ancora una volta, funge da specchio dei sogni. Rischiando, come Johannes, la derisione (da parte di colleghi e pubblico) Dreyer filma l'evento che lui stesso, da giovane, ha a lungo voluto che si compisse realmente. Una perfetta conoscenza del mezzo cinematografico e del suo potere…

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Recensione a cura di Gabriele Nasisi - aggiornata al 25/11/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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