Recensione paris, dabar regia di Paolo Angelini Italia 2001
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Recensione paris, dabar (2001)

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locandina del film PARIS, DABAR

Immagine tratta dal film PARIS, DABAR

Immagine tratta dal film PARIS, DABAR

Immagine tratta dal film PARIS, DABAR

Immagine tratta dal film PARIS, DABAR
 

Il film è geniale: la storia è una maratona di 4 ore in giro per Bologna in cui i partecipanti devono bere il più possibile senza "stracciare". Il regolamento della gara è dettagliatissimo, i protagonisti sembrano davvero (e molto probabilmente lo sono) raccolti dal marciapiede di fronte alla stazione.

Esilaranti i racconti dei personaggi: perle di vita vera, così lontani ma allo stesso tempo così vicini a chi assiste attonito allo svolgersi degli eventi.
Impareggiabili i flash back: uno dopo l'altro danno forma ad una storia che apparentemente sembra tutta lì, pronta da prendere, e che invece si fa cercare, aspettare, in un crescendo che sembra all'apparenza ingiustificato, ma che col senno di poi si rivela allo spettatore metafora dell'ubriacatura.
I dialoghi sono al limite dell'assurdità, ma nulla, e lo si capisce piano piano, è assurdo, nulla lasciato al caso.

Anche l'immagine (le riprese sono in digitale - a sentire il regista - per risparmiare), nitida all'inizio del film, si fa sempre più indefinita, sfocata e sfuggente con il passare dei minuti e con l'aumentare del tasso alcoolico nel sangue dei maratoneti...
Il tutto viene raccontato in diretta radiofonica da un dj perlomeno singolare, che con i suoi interventi e i collegamenti con i protagonisti sul campo scandisce un tempo che passerebbe altrimenti in secondo piano, ma che è invece fondamentale: 4 ore.

Alcool quindi come metafora della vita? E' difficile l'associazione, lo so. Tuttavia non stonerebbe. Intorno all'alcool nella storia girano vite, amicizie, amori, delusioni e aspettative. E intorno all'acool le vite si intrecciano, le amicizie si rafforzano, gli amori finiscono e ricominciano più forti, le delusioni fanno meno male e le aspettative a volte sono anche premiate. Non alcool come rimedio al male di vivere, non è certo questo il messaggio che vuole passare, anzi. I personaggi sono, anche se all'apparenza disperati, estremamente positivi: nessuno si nasconde dietro al bicchiere. Tutti bevono unicamente per il gusto della competizione, della "sana" competizione. E il bere passa in un piano secondario, lascia il posto alla vita, all'amicizia, all'amore. Il bicchiere come filtro, un caleidoscopio moderno e antichissimo attraverso cui vedere la vita.

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Recensione a cura di Hans - aggiornata al 09/12/2003

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