Recensione philomena regia di Stephen Frears Gran Bretagna 2013
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Recensione philomena (2013)

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Migliore film dell'Unione Europea
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
Migliore film dell'Unione Europea
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locandina del film PHILOMENA

Immagine tratta dal film PHILOMENA

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Alter-ego cinematografico di Nick Hornby, impeccabile biografo non autorizzato di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra, raffinato traduttore di illustri classici letterari, ma anche coraggioso e dissacrante artefice di opere spiazzanti e crudeli ("My Beautiful Laundrette", "Rischiose abitudini", "Piccoli affari sporchi") o di importanti successi internazionali prodotti a Hollywood (soprattutto "Eroe per caso", "Le relazioni pericolose"), l'inglese Stephen Frears ha nel corso della sua lunga carriera centrato spesso l'obiettivo, merito di un cinema che, per quanto ancorato a certi stilemi albionici - vedi la dettagliata ricostruzione di un paese in costante equilibrio tra vizio e virtù (il teatro) - ha attinto talvolta nella sperimentazione visiva.
Per certi versi il suo cinema è affine a quello dell'americano di origine ebraica Sidney Lumet, e non a caso egli è stato artefice di un remake televisivo del celebre "A prova di errore".
L'Inghilterra di Frears è stata a modo suo la celebrazione di una nazione culturalmente importante e incostante, dalle commedie di Noel Coward ai drammi di Shakespeare, dai produttori musicali à la Brian Epstein al Free-cinema, dal punk alle vicende politiche e monarchiche che l'hanno dominata anche di recente.

"Philomena", tratto dalla vera storia di Philomena Lee e Micheal Hass raccontata in un libro dal giornalista Martin Sixsmith, si impone da subito per la straordinaria sceneggiatura, come del resto è stato notato al recente Festival del cinema di Venezia, dove - per quanto accolto con favore da critica e pubblico - è stato in parte disertato dai premi maggiori della competizione.
Premiato, non senza riserve, con il Queer Lion, non è certamente un film che parla apertamente di omosessualità, ma della libertà di scelta e forse per questo il suo idealismo appare forzato, o fuori tempo. E' il tipico film che più accentua la distanza tra realtà e cinema, maggiormente colpisce per l'empatia che riesce a catturare negli spettatori.

L'aspetto più interessante della storia è probabilmente quello più marginale: un atto d'accusa verso una certa stampa che racconta la verità con il pretesto di enfatizzarne gli aspetti cruciali, al servizio di un pubblico di lettori morbosamente attratti dalle "vite degli altri". I media che guidano l'ex giornalista della BBC Sixsmith verso un percorso professionale non idoneo - ci ricorda certi film degli anni Ottanta, come "Diritto di cronaca" di Pollack - cercano quasi di deviare lo spettatore dalla testimonianza della verità, edulcorando ogni cosa al servizio di un pathos emotivo facilmente sottratto alla storia della stessa Philomena.

Al tenore drammatico della vicenda, tuttavia, Frears alterna un sottile umorismo, contrapponendo la commozione alla risata e una volta tanto gli ingredienti sono dosati con un certo equilibrio, senza allertare più di tanto detrattori e puristi di uno o l'altro genere.
Nel 2002 l'irlandese Peter Mullan vinse il Leone d'Oro proprio al Festival di Venezia con un film che denunciava aspramente i metodi e i soprusi del mondo cattolico nei confronti di ragazze madri ospiti, o per meglio dire prigioniere, di certi terribili conventi.
Philomena Lee era una di loro. ma questo film non cerca l'invettiva sociale a tutti i costi. Non vuole suscitare polemiche e dibattiti, ma si limita - e non è poco - a raccontare l'ingiustizia della Chiesa nei confronti di una madre che, come molte altre, si è vista affidare il proprio figlio ad altre famiglie benestanti per aberranti scopi di lucro.

Il "metodo" di Frears, più che mai diffuso nel cinema inglese, sta tutto nella rivelazione di una scena-madre girata e costruita con un senso pragmatico e rigoroso di certe esperienze teatrali, come se la futura destinazione della storia fosse già in un palcoscenico. Un finished stroke, diciamolo, degno dell'epilogo del celebrato "Segreti e bugie" di Mike Leigh. Qui si parla di ulteriore scoperta, del resto già preannunciata da un contesto messo a dura prova dagli eventi che riguardano la storia della protagonista, il suo dolore materno, il figlio perduto più volte e indirettamente, amaramente ritrovato.
La gente sembra gradire un forte riflesso della sfida, quasi da Eugene O'Neill e i suoi drammi familiari, quando i colpevoli vengono messi di fronte alle loro responsabilità morali. Ma in verità, vuoi per il bisogno incompatibile del perdono cristiano della protagonista, vuoi per un rancoroso ma occultato indulto temporale, i momenti più autentici della storia sono già alle nostre spalle. Essi chiamano in causa non tanto o solo il lungo viaggio della donna con il giornalista alla ricerca del figlio dopo quasi cinquant'anni, ma il suo dramma interiore anche spirituale - vedi la fugace visita al confessionale di una chiesa battista americana - o il riflesso del rimpianto quando guarda con affetto i filmati in 8 mm del figlio negli anni della sua realizzazione professionale e affettiva.

E' in quei momenti, con lo spettro dell'Aids a ricordarci certi lugubri decenni, che le nostre lacrime chiedono di liberarci-liberarsi, come animate da quella forza universale e terribile che è la separazione, che appartiene alla perdita e all'esperienza comune di ognuno di noi, con il miraggio laico dei nostri Estinti.
A noi non importa sapere se Micheal fosse gay o no, ci interessa che Frears si soffermi su un clima oscurantista che per varie ragioni porta i suoi strascichi nefandi anche a distanza di molti anni, ancora oggi. Ci importa sapere che, anche se vale il prezzo di una battuta, la sua vita è stata l'ennesima maschera di una società brutalmente asservita al dovere dell'apparenza e del prestigio nazionale.
In fondo non è poi difficile trovare affinità, per quanto diverse, tra il figlio della protagonista e l'amara débâcle professionale del giornalista che si occupa del caso, tra chi ha dovuto mentire per salvare se stesso, e chi magari ha perduto il suo lavoro per aver detto una sorta di verità.

E in tutta l'urgenza espressiva di Judi Dench, magnifica interprete, Frears sembra trovare la capacità di mettere un sigillo definitivo a un'epoca scomparsa, come se certe ferite possano lentamente lenirsi solo attraverso il plauso incoraggiante del ricordo più bello, della memoria umana.
E forse questo è un suo limite, perché non sempre i sogni ci sanno rassicurare, tra doppie vite e doppi esizi, e sorridere serve solo a rinviare il corso di quest'implacabile eternità.
E' un postumo ricongiungimento, oltre il peccato vero o presunto, che reclama proprio quell'Altro Mondo di cui non sappiamo l'esistenza"

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 17/01/2014 18.32.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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