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Cos'hanno in comune la morte e la poesia?
Assolutamente nulla.
Eppure un giorno la morte e la poesia entrano prepotentemente nella vita di Mi-Ja,una mite signora sessantaseienne di una piccola cittadina vicina a Seul, che per arrotondare la magra pensione sociale si vede costretta a fare la badante a tempo parziale ad un vecchio semiparalitico non più autosufficiente.
Anziana anagraficamente, Mi-Ja si oppone al trascorrere del tempo vestendo ampie gonne a fantasie floreali, indossando vezzosi capellini, sfoggiando sempre ampi sorrisi da ragazzina.
Fino al quel giorno la vita di Mi-Ja era trascorsa sui binari della normalità. Una normalità cercata caparbiamente, più che effettiva. Perchè di traversie la vita gliene aveva offerte abbastanza: sua figlia aveva divorziato dal marito e le aveva lasciato da crescere il nipotino, che alla lunga si era rivelato, quel che si dice, "non propriamente un bravo ragazzo".
A complicarle la vita ci si mettono anche degli strani disturbi che da qualche tempo la molestano. Succede che, improvvisamente, durante normali conversazioni, l'assalgono dei fastidiosi vuoti di memoria che non le consentono di ricordare parole anche di uso comune, per cui non riesce a tenere il filo di un discorso.
Credendo trattarsi di semplici amnesie, comincia a mettere in rima quelle parole, annotandole su un quadernetto, convinta che scrivere l'aiuti a ricordarle.
Ma anche per soddisfare il suo antico sogno segreto di scrivere poesie, per "fermare la bellezza che le sta intorno", sia essa un'albicocca calpestata o il fiore cremisi sbocciato improvvisamente sull'albero frondoso del giardino di casa sua.
Solo che non si tratta di semplici amnesie, ma delle prime avvisaglie del terribile morbo di Alzheimer, come le diagnostica il medico, presso cui ,un giorno, si reca per sottoporsi ad un semplice controllo.
Decisa a non rassegnarsi al vuoto, tace a tutti la verità (compresa la figlia con la quale ha sporadici contatti telefonici) e si iscrive ad un corso di poesia, preso il locale "Centro Culturale", sperando di "liberare la poesia intrappolata nel cuore", come le insegna il maestro.
Ispirazione poetica che non arriva, ma che lei continua incessantemente a cercare, soffermandosi ad ascoltare la voce della natura o a contemplarla nei suoi molteplici e mutevoli aspetti. Nel bel mezzo della ricerca della bellezza, irrompe nella sua vita la morte, nascosta nel corpo riverso di un'adolescente che affiora dalle acque del fiume che attraversa la città.
Quello che Mi-Ja non può assolutamente immaginare è che dietro quella morte ci sia il suo amato nipote, uno svogliato studente di sedici anni, pigro, abulico e teledipendente.
Lo apprende il giorno in cui viene convocata dai padri dei cinque ragazzi del branco (che assieme a suo nipote hanno prima violentato sessualmente dentro le mura della scuola e poi spinto al suicidio per la vergogna di quanto accaduto, una loro compagna di classe), per decidere insieme la strategia da adottare per soffocare lo scandalo, prima che la notizia si diffonda e i media la rendano nota a tutta la città.
Questo fatto, con tutto ciò che ne consegue, finisce per trasfigurare definitivamente il suo mondo, mentre il dolore che è dentro di lei, e in quella morte, la porterà, incredibilmente, a scrivere la sua prima poesia, mettendo in versi i moti del suo animo, dove sono racchiusi la bellezza e la dignità, da perseguire sempre, nella malattia, come nella vecchiaia e nel dolore.
Lee Chang-dong è un regista sudcoreano (forse il più rappresentativo regista formale del paese dell'estremo oriente) che ama proporre ritratti di donne spesso provate dalla vita: donne sole, anziane, squassate dal dolore, che hanno difficoltà a vivere. L'ultima di queste eroine tragiche è Mi-Ja, l'amabile signora di mezza età un po' svampita, protagonista di Poetry.
Lee Chang-don la segue, la scruta, la giudica e la giustifica. Si adegua alla sua realtà, al suo lento incedere esistenziale, alla sua soavità, alla sua ostinazione, al suo guardare il mondo con più sensibilità degli altri.
È solidale con le sue innocue furbizie, con le sue incongruenze e le sue svagatezze, come in fondo cominciano ad essere le sue azioni. Il che, però, non le impedisce di vedere la desolazione della realtà che sta attorno a lei.
In Poetry, Lee Chang-dong sviluppa molte tematiche, già presenti nei suoi precedenti lavori (Peppermit Candy- Oasis - Secret Sunshine): le difficoltà esistenziali delle persone costrette e vivere realtà distorte, un certo sentimentalismo che si ferma un attimo prima di scadere nel melò, la dignità umana da cercare sempre, anche nelle situazioni estreme, la ricerca di un rapporto tra vita e morale.
Il film ha il sapore agrodolce, tipicamente orientale (se si eccettuano i film orientali d'azione) dei lunghi silenzi, dei dialoghi lenti, delle atmosfere spesso cupe e ovattate, di un certo estremismo romantico, delle inquadrature panoramiche che si fanno omogenee ai moti dell'animo.
Tutto questo ed altro ancora, come lo scorcio di uno spaccato della società orientale (e sudcoreana in particolare) nelle città di provincia, dove si fronteggiano la realtà squallida e demotivata dei giovani e la condizione della vecchiaia che porta, da una parte all'isolamento e alla emarginazione e dall'altra alla voglia di reagire cercando di dare un nuovo significato alla vita.
La sceneggiatura, dello stesso Lee - premiata a Cannes 2010 - oltre a fare di Mi-Ja il fulcro della storia, si lancia in una critica profonda alla condizione femminile contemporanea (che non è circoscritta alla sola realtà nordcoreana in particolare, ma si può considerare più universale e comune sotto molte latitudini), dove le donne spesso sono succubi e vittime di una società maschilista e violenta; una società in cui si sono persi i valori etici che da sempre segnano e guidano il percorso dell'umanità; una società in cui i soldi sono il nuovo vangelo, e con i soldi si compra tutto, il sesso e il potere, e anche il segreto sulla morte di una ragazza poco più che bambina.
Poetry è un film struggente e intenso, dedicato alla nascita della poesia. Ma prima alla vita, al bello delle emozioni, al senso delle cose che la realtà sedimenta nel profondo del cuore, dove sono rinchiuse le emozioni.
Un film che turba e fa commuovere, ma non fa piangere, perchè c'è quasi un barlume di happy end in quel finale di struggente bellezza, dove si incontrano parole e suoni che danno un significato nuovo alla vita, che culmina in un poetico piano sequenza, memorabile e ricco di significati, degno di una fra le migliori (e più riuscite) pellicole della stagione.
Un film sorretto da un'ottima sceneggiatura, scrupolosa nel sottolineare il concetto del bello racchiuso nelle cose e la forza della poesia nel "mettere in musica la ragione" (come diceva F. De Sanctis).
Un'opera dolente e spiazzante nel suo profondo lirismo, anche nel momento (forse) più disturbante dell'intero film: quella scena di sesso "geriatrico" tra Mi-Ja e il vecchio semiparalizzato cui fa da badante, al quale si concede dopo un'iniziale titubanza.
Una scena che potrebbe risultare sgradevole e avulsa dalla storia raccontata, ma non perchè mostra un rapporto sessuale tra due "anziani", tutt'altro, ma perchè il giudizio che ci si è fatti di Mi- Ja, con la sua dolcezza, la sua positività, il suo romanticismo, la sua fragilità, induce a credere che il sesso, per una donna idealizzata come lei, non faccia più parte dei suoi interessi e della sua realtà.
Ma, probabilmente (anzi sicuramente), il regista, con quella scena, ha voluto sottolineare un diffuso appunto di costume, come a significare la metafora di una società maschilista, com'è ancora quella nordcoreana (inquadrata in una accezione più ampia), che costringe le donne a venire a patti con l'inaccettabile, considerandole come meri oggetti sessuali da utilizzare dal potere maschile, senza alcuna possibilità di autodeterminazione.
A reggere sulle spalle, in modo semplicemente stupendo, il peso dell'intero film, in un ruolo bellissimo e difficile, emozionante ed intenso, c'è Yun Jeong-hie, un'attrice veterana del cinema sudcoreano, con oltre 300 film al suo attivo e un numero imprecisato di premi, che torna davanti alla macchina da presa dopo un lungo periodo di assenza durato ben 16 anni.
La sua Mi-Ja dagli occhi sognati, mite, ingenua, sorridente, fragile nella vita, forte di carattere, dà umanità ad un piccolo capolavoro che si addentra nei meandri più reconditi dell'animo umano, come fossero le parole ad avere significato nella vita, ed è da esse che bisogna ripartire per ricercare "la bellezza e le verità nascoste dentro di noi".
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 15/04/2011 16.05.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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