Recensione riflessi di paura regia di Alexandre Aja USA 2008
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Recensione riflessi di paura (2008)

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locandina del film RIFLESSI DI PAURA

Immagine tratta dal film RIFLESSI DI PAURA

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Immagine tratta dal film RIFLESSI DI PAURA

Immagine tratta dal film RIFLESSI DI PAURA

Immagine tratta dal film RIFLESSI DI PAURA
 

"Gli specchi sono delle finestre che si affacciano sul nostro mondo"

Al trentenne regista parigino Alexandre Aja non manca la capacità tecnica. Sono l'originalità, la creatività e la fantasia a fargli completamente difetto.
D'altro canto il suo curriculum parla chiaro: dopo il suo esordio con il film "Furia" (1999) ispirato al racconto "Graffiti" di Julio Cortázar, si è fatto conoscere dal grande pubblico con il thriller (da molti definito horror) "Alta Tensione" ("Haute Tension", 2003), pellicola che sembrerebbe fortemente ispirata, per non dire copiata, dal libro "Intensity" di Dean Koontz; è poi approdato negli Stati Uniti dove ha diretto "Le Colline Hanno gli Occhi" ("The Hills Have Eyes", 2006), sopravvalutato remake dell'omonimo film diretto da Wes Craven nel 1977.

Questa volta è il turno del film "Mirrors", remake del film sud- coreano "Into the Mirror" ("Geoul Sokeuro", 2003, di Shung-Ho Kim).

Più volte in questa sede ci siamo lamentati di questa pratica malsana e perversa, di matrice hollywoodiana, dell'"americanizzazione" dei film stranieri, soprattutto di quelli di genere horror, attraverso l'artificio del remake.
Qui non stiamo parlando di un film vecchio o girato male e con pochissimi mezzi, ma stiamo parlando di un film sud-coreano, recente e di pregevole fattura, che ha maturato un buon successo di pubblico ed un'ampia distribuzione. La pellicola originale, infatti, è stata distribuita in tutti i principali paesi occidentali (fra cui la Francia, l'Inghilterra, la Polonia, la Spagna, la Germania, il Regno Unito, la Finlandia) ad eccezione, come al solito, dell'Italia.

Se si dovesse paragonare, e in alcuni casi è impossibile non farlo, il film diretto da Aja con l'opera realizzata da Shung-Ho Kim, "Mirrors" dovrebbe avere una valutazione così negativa da uscire da qualsiasi scala di valore. E questo semplicemente perché "Into the Mirror", non solo è un film assai più complesso, con una trama articolata e molto ben costruita, con risvolti filosofici e psicanalitici di ragguardevole livello, ma è anche un film formalmente impeccabile, diretto in modo sublime e ben interpretato.
È, quindi, inutile fare il raffronto fra le due pellicole, come è altrettanto inutile il remake realizzato da Aja, che adesso andremo ad analizzare.

"Mirrors", intitolato in Italia "Riflessi di Paura", racconta la storia di un ex agente di polizia, Ben Carson (Kiefer Sutherland), che accetta il lavoro di guardiano notturno nel Mayflower, un ex-emporio di lusso, che è stato distrutto da un incendio devastante. Fin dalla prima notte di lavoro, Carson noterà che tutti gli specchi del Mayflower sono integri, perfettamente puliti e non solo: questi cominceranno prima a spaventarlo riflettendo immagini orrifiche di quanto avvenne durante l'incendio, poi minacciando la sua famiglia. Minacce che ben presto si riveleranno concrete.

Si sconsiglia la lettura di quanto segue a chi non abbia precedentemente visto il film, poiché in questa analisi si riveleranno i principali colpi di scena del film e il suo finale.

Alexandre Aja, che insieme all'amico Grégory Lavasseur è anche autore della sceneggiatura, aveva a portata di mano moltissimo materiale, che, se sviluppato in maniera differente, avrebbe potuto consentirgli di dirigere un'opera originale (benché sempre di remake si tratti), intrigante e con risvolti psicologici e filosofici assai interessanti ed affascinanti. Invece, Aja e Lavasseur hanno semplificato la trama originale riducendola ai minimi termini, privandola del tema sempre affascinante della vendetta, assai caro al cinema sud-coreano, e abbandonando completamente il genere del thriller con risvolti paranormali per abbracciare l'horror più blando. Essi hanno sfoltito il numero dei personaggi e delle micro e macro storie presenti nell'opera originale, per poi introdurre un demone e il solito abusato tema della famiglia in crisi, così caro al cinema hollywoodiano.
Infatti, essi hanno affiancato al protagonista una sorella, una moglie e due figlioli.

Ma, d'altronde, perché fare un remake fotocopia? È certamente un bene fare delle modificazioni rispetto al film originale!
Questa frase è vera solo in parte, perché se le modificazioni sono di carattere peggiorativo, non si capisce quale sia l'effettiva ragione di apportarle.
Se poi si voleva scrivere una storia differente, allora perché fare un remake? Non sarebbe stato più opportuno scrivere una nuova storia di sana pianta?
Certo, ma questo richiede creatività e fantasia. Doti che non possono assolutamente mancare a chi vuole definirsi artista.

Se poi il nostro regista parigino era rimasto tanto affascinato dalla storia di "Into the Mirror", allora perché cambiarla?
E comunque, se fosse rimasto affascinato soltanto da alcune delle tematiche trattate, perché non prenderne spunto (riconoscendo a Shung- Ho Kim il merito e la paternità dell'idea originale) e scrivere una nuova storia con tematiche simili?
In fin dei conti di materiale ce n'era a sufficienza per scrivere almeno una decina di film differenti!

Aja avrebbe potuto giocare maggiormente con il passato di Ben Carson e rendere più ambiguo lo snocciolarsi della vicenda. C'è davvero una presenza demoniaca che alberga dentro gli specchi oppure è la mente di Carson che vacilla?
Avrebbe potuto giocare sulla paranoia, sulla scissione dell'Io, sulla perdita d'identità, sul senso di colpa. E invece no!
Aja ci dice praticamente fin dal principio che gli specchi sono abitati da una presenza malvagia e che questa è la causa dell'incendio che cinque anni prima ha distrutto il Mayflower. Rifugge qualsiasi ambiguità e risolve l'intera vicenda con un finale (ma non ci stiamo riferendo alla sequenza conclusiva, che merita un discorso a parte) banale, già visto, visto e rivisto, scevro di qualsiasi interesse.

Quando si parla di specchi, sono tante le tematiche che si possono affrontare, specie grazie al valido ausilio di una trama dell'orrore.
Aja avrebbe potuto analizzare il rapporto dell'uomo con la propria immagine. Un'immagine intesa anche come mero apparire sociale; una società che vive di apparenze, di rapporti superficiali, freddi e piatti come la superficie dello specchio.

Lo specchio avrebbe potuto essere anche il semplice riflesso del male che alberga nel cuore umano e nella società umana. E invece no! È il male ad albergare lo specchio. Quasi come se il male facesse parte di un'altra realtà.

Nella strada che Aja sceglie di percorrere potremmo con una certa forzatura cercare di vedere nello specchio una prigione dell'anima, come se il culto per la propria immagine fagocitasse lo spirito dell'essere umano. Tuttavia questa, è proprio il caso di dirlo, sarebbe una sovrainterpretazione improponibile.

Aja avrebbe anche potuto analizzare il tema dello sdoppiamento della personalità (si veda appunto il caso di Anna Esseker) e del dualismo fra una realtà apparente e una realtà ribaltata, mettendo in discussione il concetto stesso di realtà.
È vero che il dottor Morris spiega la scissione dell'Io e la falsa percezione di due mondi distinti, tuttavia quelle parole lasciano abbastanza il tempo che trovano e non hanno nessun riscontro durante lo svolgimento del film. Esse acquistano un senso non superficiale soltanto durante l'ottima sequenza di chiusura.

Visto tutto ciò che Aja avrebbe potuto fare e che non ha fatto, andiamo a vedere quello che effettivamente ha realizzato.

"Mirrors" è un film dalle atmosfere piuttosto curate.
Aja gioca fra la costante contrapposizione fra il giorno e la notte.
L'interno del Mayflower è labirintico e angosciante. Anche i suoi spazi più ampi incombono su Carson e per riflesso sullo spettatore come una prigione.
Le sequenze diurne sono luminose e dai colori vivaci, in netta contrapposizione alle sequenze notturne quasi interamente girate all'interno dell'emporio.
Aja sembra aver parzialmente abbandonato quel gusto grandguignolesco, che ha contraddistinto i suoi lavori precedenti, per creare una maggiore tensione, che, a discapito dei titoli, è un elemento di cui le sue opere precedenti hanno sempre difettato, essendo appunto fondate su lunghe sequele di cosiddette "immagini shock".
L'intenzione è buona, ma fallimentare. La tensione si crea durante le prime sequenze per poi scemare nel nulla. Inizialmente, il male sembra animarsi soltanto nelle scene notturne, ma poi lo scopriamo ad agire anche di giorno. Questa commistione fra il diurno e il notturno, così ben separati e distinti nella prima metà del film, fa sì che il livello di tensione precipiti vertiginosamente.
Tutta la sequenza in cui lo specchio attacca la famiglia Carson, momento clou della pellicola, non convince e non impressiona. Un poco più interessante e più orrifica è la sequenza in cui trova la morte Angela (Amy Smart), la sorella di Carson.
La soluzione finale dell'enigma, come già detto, è assai poco convincente. Lo spettatore si trova di fronte ad una terapia-esorcismo che ha guarito la bambina posseduta (che francamente sembra uscita direttamente dalla soffitta dell'immobile di "Rec") imprigionando il demone negli specchi del Mayflower, all'epoca clinica psichiatrica, e al successivo contro esorcismo con cui il demone esce dagli specchi per rientrare nel corpo ormai vecchio di Anna Esseker.
Perché un demone, che più che essere prigioniero di uno specchio - nessuno si ricorda il primo episodio del bellissimo "La Bottega che Vendeva la Morte" ("From Beyond the Grave", 1973)? – può muoversi ed agire indisturbato attraverso qualsiasi superficie riflettente producendo ogni genere di nefandezza, dovrebbe preferire ritornare ad albergare il corpo di una donna, per giunta ormai vecchia, piuttosto che restare là dove si trova?
Oltretutto, quando Anna Esseker si rifiuta di andare al Mayflower con Carson, afferma che il demone, da quando è stato imprigionato negli specchi, s'impossessa delle anime delle persone che uccide. Quindi, a maggior ragione non si spiega perché esso desideri tanto ritornare al di qua dello specchio.
È vero che nel genere horror le spiegazioni non sono necessarie ed è vero che in "Mirrors" una blanda e non espressamente dichiarata spiegazione si potrebbe anche estrapolare, però la storia è a dir poco claudicante, per non dire sconclusionata.

Per quanto riguarda, invece, la sequenza finale, si deve riconoscere che essa da sola potrebbe valere la visione e riscattare tutto il film, a patto però che non si sia prima vista la pellicola originale.
Questa sequenza, infatti, insieme ai titoli di testa è quanto di meglio sia riuscito ad Aja durante la realizzazione di "Mirrors".

La tematica dell'uomo prigioniero all'interno di una realtà riflessa, condannato a vedere il mondo all'inverso e condannato a non essere visto da coloro che si trovano dall'altra parte, ha un fascino tutto suo e, quella sì, avrebbe meritato di essere sviluppata.
Essa, inoltre, si accompagna anche efficacemente alla tradizione classica che vede negli specchi una porta fra due dimensione parallele, ma ci rendiamo conto che questi sofismi sono troppo acuti per Alexandre Aja, che sembra essere capace soltanto di emulare, ma non di rielaborare creativamente. Meglio lasciare tali tematiche ad autori di ben altro calibro come John Carpenter – qualcuno forse si ricorda de "Il Signore del Male" ("Prince of Darkness", 1987) – senza dimenticarci del romanzo "Dietro lo Specchio" (1871) di Lewis Carroll e dell'italianissimo film "Inferno" (1980) di Dario Argento (volendo la lista potrebbe essere assai lunga). Un discorso a parte meriterebbe il riferimento a un altro film sud-coreano uscito nello stesso anno di "Into the Mirror": "Old Boy". Anche in esso si affronta, ma solo in senso psicanalitico, la tematica dell'immagine riflessa. Le considerazioni esposte accomunano e non poco queste due pellicole, ma non hanno niente a che vedere col ben più superficiale "Mirrors".

Inoltre, questo finale, quasi splendido, risulta avulso dal contesto complessivo del film diretto da Aja. Esso infatti è identico al finale di "Into the Mirror", con una sola differenza: nel film originale c'è una storia solidissima che conduce lo spettatore, passo dopo passo, a quello specifico finale.
Buono e affascinante, dunque, il finale diretto da Aja, ma in conclusione risulta essere appiccicato ad un film che con esso c'entra poco o niente. Inoltre, non si spiega il balzo cronologico quinquennale compiuto da Carson.
Resteranno comunque soddisfatti tutti coloro i quali non hanno mai visto il film diretto da Shung-Ho Kim.

Sotto il profilo del cast artistico gli attori migliori e più convincenti sono Cameron Boyce ed Erica Gluck, che interpretano il ruolo dei figli dei coniugi Carson.
Kiefer Sutherland, che qui veste anche i panni del produttore esecutivo, interpreta in modo convincente il ruolo di Ben Carson, ma certamente non ci offre una delle sue migliori prestazioni.
Paula Patton è una bella donna, che altro aggiungere?
In parte Amy Smart, ma la sua presenza si limita a poche pose.

Alexandre Aja, come si è detto più volte e in sedi differenti, è un regista tecnicamente bravo e dotato di un discreto talento. Tuttavia, la regia di "Mirrors" in alcuni passaggi, i migliori e più suggestivi, ricalca fedelmente quella del film originale. Si pensi ad esempio alla scena iniziale in cui il predecessore di Carson viene ucciso dalla propria immagine riflessa, che si taglia la gola. Essa è assai simile a quella in cui muore l'impiegata ladra dell'emporio di "Into the Mirror".
Anche la sequenza finale, quasi in tutta la sua interezza, sembra essere la fotocopia di quella originale.
Tuttavia Alexandre Aja non è Shung-Ho Kim e non possiede le sue doti artistiche e visive. Il risultato è che la regia di "Mirrors", alla fine, si rivela piuttosto accademica, poco fantasiosa e tutt'altro che impeccabile.

Inoltre, il film conta una vasta serie di errori decisamente poco apprezzabili.
All'inizio del film Lorenzo Sapelli (John Shrapnel), il guardiano diurno del Mayflower, spiega a Ben Carson come l'immobile sia ormai privo di elettricità. Eppure i sotterranei sono illuminati dalla luce elettrica.
Poi, si dice che il Mayflower è stato devastato da un incendio, tuttavia al suo interno è presente un vasto numero di manichini, che, benché costituiscano una presenza inquietante e quindi scenograficamente efficacie, avrebbero dovuto essere una delle prime cose a bruciare. Ma su questo potremmo anche soprassedere.
Sempre nelle sequenze iniziali, Ben Carson si taglia il palmo di una mano. Immediatamente dopo, vede riflessa in uno specchio la propria immagine che prende fuoco. Egli cerca di spengere quelle fiamme che al di qua dello specchio non esistono. E lo fa colpendosi più volte il petto a mani aperte, eppure nessuna traccia di sangue macchia la sua camicia. A questo punto lo spettatore potrebbe essere indotto a credere che anche il taglio sul palmo della mano sia stato frutto dell'immaginazione, ma nella sequenza successiva vediamo Carson medicarsi la ferita.
Nella sequenza finale, poi, Carson vede tutto invertito ad eccezione del traffico stradale.
Per non parlare di personaggi che sono deceduti, ma che continuano a muovere le dita (e non si tratta di un errore voluto). Oppure che in una sequenza sono nudi, poi abbigliati e poi nuovamente nudi. In entrambi i casi si allude alla sequenza in cui muore la sorella di Carson.

Come spesso accade per la maggior parte dei remake, anche di questo "Mirrors" proprio non si sentiva il bisogno. Il solo merito che gli si può riconoscere è quello di aver fatto scoprire in Italia la pellicola sud-coreana diretta da Shung-Ho Kim, di cui si caldeggia fortemente la visione e se ne auspica anche la distribuzione.

Sarebbe bello che in un futuro Alexandre Aja e Grégory Lavasseur incominciassero a scrivere storie loro senza attingere a piene mani, né deturpare il lavoro di altri artisti di ben più alto livello.

"Mirrors" è un giocattolino ruffiano e patinato, che può anche consentire una serata di svago, magari a casa piuttosto che al cinema e sapendo che a questa pellicola si possono applicare con efficacia le parole pronunciate da Angela Carson:

"Gli specchi sono soltanto vetro e foglia d'argento. Tutto qui! Al di là non c'è niente." *1

*1 Porti pazienza il lettore se la citazione non fosse letterale, poiché chi scrive ha visto il film in francese ed è possibile che nella versione italiana la traduzione sia leggermente differente.

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 03/10/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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