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Una telecamera segue di continuo una giovane coppia per girare un documentario sui temi della precarietà lavorativa. Ma il racconto finisce presto per incentrarsi sulla precarietà dei sentimenti amorosi ed affettivi, in un'ottica "al femminile".
Quante valenze e chiavi di lettura diverse nell'intrigante film della "resuscitata" Anna Negri, che mancava nelle sale dal lontano 1998 (con "In principio erano le mutande"); originale a partire dal titolo, con il suo doppio significato filmico e/o sentimentale.
La regista porta un nome famoso, ma del padre non vuole sentire parlare nel modo più assoluto, e prende le giuste distanze rifugiandosi nel privato, raccontando "storie di ordinari sentimentalismi femminili" come se la dimensione individuale fosse davvero quella unica, ed il contesto sociale contasse poco; si smentisce però quando, forse per reminescenze edipiche, ci mostra un affresco di vite singole fortemente condizionate dal momento storico e dall'insieme socio-culturale del Paese e dei tempi in cui viviamo.
A dimostrazione di quanto sopra, il fatto che il film trovi spazio solo come produzione indipendente (grazie a Francesca Neri) ed in festival alternativi (grazie a Robert Redford), e che tanta lucidità di osservazione le venga dai lunghi studi all'estero, in Paesi più ricchi ed aperti del nostro come Francia, Olanda e Gran Bretagna; la quale formazione sembra consentirle una visuale esterna, non condizionata della nostra realtà, con la vocazionale spietatezza del documentario.
E proprio da un documentario partono le vicende del film, quando i due giovani operatori, Eros e Giorgio, decidono di girarne uno sui temi della precarietà del lavoro, prendendo di mira una coppia emblematica dell'instabilità lavorativa: lui attore, lei free-lance al montaggio video. Molto "maschile" la giovanile pretesa di acciuffare al volo le verità, con l'illusione di capire e spiegare tutto, grazie a strumenti razionali (e tecnologici); molto "femminile" la risposta emotiva e sentimentale della protagonista, che riesce a convertire un tema politico-sociale in domestico-privato, forte della solidarietà delle amiche.
E qui si miscelano i mille argomenti e le mille tematiche che fanno la ricchezza del film, in parte sentimentale, in parte riflessivo e in parte drammatico; difficile da definire come genere, a cavallo tra la commedia leggera in cui si soffre d'amore e si ride, il dramma, in cui emergono solitudini, disperazioni e paure, e la satira di costume di una società alla sbando come la nostra, in cui una congerie di giovani piccolo-borghesi o radical-chic cercano di "rimediare" la giornata, anziché lavorare seriamente e formarsi a dovere, tentando vie impraticabili destinate alla precarietà.
A sospingerli verso la precarietà sono, senza che loro se ne rendano conto, delle forze esterne come le devastanti TV commerciali, che instillano in loro dubbi schizoidi sui limiti tra realtà e finzione, dove non si capisce se il reality imiti il vero o se sia la realtà a copiare la fiction, come bene evidenzia la metafora dei due giovani operatori che seguono dal vivo "vita, morte e miracoli" dei malcapitati protagonisti: schizzati ed alienati al punto da farsi seguire dalla telecamera anche nei segreti dell'alcova o al gabinetto (commovente quando la povera Lucia ammette di farlo pur di non sentirsi sola).
Corretta l'analisi della protagonista, che definisce "una realtà liquida" quella in cui si muovono: una realtà in cui le situazioni si modificano sempre, senza mai consolidarsi in pratica consueta e garantita, tranquilla e sicura.
Senza effetti "stabilizzanti" non restano altro che sofferenza e autocommiserazione, soprattutto per le donne, capaci sì di recriminare apertamente, ma non certo di elaborare il lutto della separazione.
Agli uomini resta solo il voyeurismo del guardare alla realtà da distanti (o con la telecamera), senza però entrare in scena, diventando protagonisti e assumendosi le giuste responsabilità.
Il film propone a getto continuo problematiche del genere, impossibili da esaurire in poche righe; vanno comunque citate alcune trovate della regia, come le mini interviste ai singoli personaggi (indimenticabile il ritratto della psicologa schizzata).
E' d'obbligo inoltre un riferimento allo stile di Anna Negri, che ricorda in parte la commedia del sentimento nevrotico e dell'incontro-scontro di coppia del Woody Allen prima maniera, ma pure il quadro colorito, scoppiettante e schizzato dell'umanità frenetica di Almodovar, tra nevrosi e psicosi.
Regia ineccepibile, dunque, grazie anche ad una recitazione eccellente di tutto il cast (difficile scegliere il migliore), ad una colonna sonora raffinatissima e ad una fotografia di rara qualità, capace di raccontare il reale come di esprimersi in modo immaginifico, per pure metafore (la Roma notturna vista dal taxi).
Forse sottovalutato da certi critici nostrani, "Riprendimi" è invece piaciuto molto all'estero, tanto che sembra voglia girarne il remake una grande produzione americana.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 23/04/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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