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Pensato per commemorare il centenario del terremoto di Messina, il film è stato presentato a Venezia solo nel 2011 a causa di una serie di vicissitudini di varia natura.
Quattro grandi registi (originariamente erano in cinque, ma poi la scomparsa di Andrea Frezza ha modificato il progetto in corso d'opera) hanno dato una loro personale visione degli eventi del 1908 partendo dall'immediata vigilia e soffermandosi su quanto accaduto dopo la terribile scossa distruttrice.
Il primo episodio che vede come assoluta protagonista Lucia Sardo è stato girato da Carlo Lizzani.
Speranza, una donna rimasta vedova prematuramente, ha un'esistenza agiata ed è serena con i suoi figli ma rimasta tra le macerie della sua casa crollata aspetta solo che la morte la riunisca al suo compagno poiché nessuno riesce a raggiungerla tranne un infame sciacallo che, dopo aver rubato qualche suppellettile fugge via vigliaccamente.
Scenografia asciutta e quasi spettrale come il volto dell'anziana vicina, istupidita dal dolore, che cammina lungo le case ormai ridotte a misere macerie convinta di aver visto la fine del mondo.
Ugo Gregoretti sceglie di raccontare il resoconto del viaggio effettuato dallo scrittore Giovanni Cena (Paolo Briguglia) durante un viaggio in treno lungo la costa calabra colpita dal sisma.
Bianco e nero, narratore in primo piano che nel suo italiano desueto e forbito racconta con freddo distacco le scene di disperazione, l'accaparramento del cibo, la fuga. Il suo occhio e le sue parole catturano ogni situazione con algida imparzialità colpendo l'immaginario dello spettatore.
Il terzo episodio, raccontato da Citto Maselli e interpretato da Massimo Ranieri e Amanda Sandrelli, è uno dei più teatrali: nel grigiore polveroso che ammorba l'aria si consuma la tragedia di un uomo scambiato ingiustamente per sciacallo dai soldati stranieri, accorsi a salvare la popolazione ma che, a causa della barriera linguistica, si macchiarono di crudeli delitti.
Surreale e metaforico è l'episodio raccontato da Nino Russo: un povero pescatore, come l'ebreo errante medioevale, decide di non morire finché non avrà la casa popolare promessa all'indomani del terremoto. L'Italietta dei successivi cento anni sfila davanti ai suoi occhi con la sua meschina ingenuità, rappresentata da quattro ragazzotti che si infiammano per le piccole vittorie ma hanno cuore. In un secolo quasi nulla appare cambiato: le baracche, dimore provvisorie, sono diventate definitive; il pescatore cerca ancora giustizia ma i ragazzotti piuttosto che dare l'allarme per aver visto affiorare a riva i cadaveri di alcuni poveri migranti preferiscono correre a vedere la finale mondiale di calcio tra Italia e Francia.
Gattopardescamente tutto cambia ma tutto resta uguale, però il cuore che faceva degli italiani la "brava gente" nel frattempo si è perso per strada. Metafora straordinaria dei mali del nostro paese, sempre provvisorio, sempre alle prese con la precarietà.
Opera forse di nicchia ma da vedere per riflettere, perché il passato insegna a vivere bene il presente e prepara un buon futuro, ma solo se viene ben interpretato.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 28/05/2012 15.24.00
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