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Correva l'anno 1996 quando "Scream", il primo horror postmoderno della storia del cinema, usciva nelle sale di tutto il mondo sfracellando gli incassi e spingendo i produttori americani a realizzare una serie infinita di slasher tutti uguali. Craven ci aveva già provato nel 1994, rientrando in possesso della sua più famosa creatura, Freddy Krueger, a rivitalizzare il genere in senso metacinematografico. Purtroppo l'operazione, troppo sofisticata e cerebrale, non era stata compresa. Ci voleva un giovane sceneggiatore cresciuto a pane e slasher anni '80, Kevin Williamson, per semplificare il discorso teorico di Craven e renderlo appetibile a un pubblico giovane, che è poi quello a cui il genere horror sembra naturalmente destinato. E così, al posto di una troupe e di attori invecchiati e immalinconiti alle prese con la persecuzione del personaggio che li aveva resi famosi, "Scream" narrava la storia di un gruppetto di adolescenti contro un killer mascherato. Un canovaccio sfruttato nel decennio d'oro del cinema dell'orrore almeno un milione di volte. Cosa rendesse "Scream" così speciale da far risorgere dalle ceneri un tipo di film dato per morto (l'horror a metà degli anni '90 registrava forse il suo peggior periodo, relegato solo al circuito della più bieca serie b) è presto detto: il suo intento non era quello di spaventare, ma di riflettere sui meccanismi e gli stereotipi che sono alla base stessa del genere di cui "Scream" fa parte. Non una parodia, sia chiaro; piuttosto la stesura di un codice di regole, esplicitate in ogni linea di dialogo e rispettate metodicamente dallo svolgersi degli eventi sullo schermo. "Scream" instaurava un confronto diretto con gli spettatori, che a loro volta conoscevano quelle regole e andavano a vedere il film per avere una conferma della loro conoscenza del genere. Un'autoreferenzialità che, dopo "Scream", è diventata la cifra stilistica predominante del cinema dell'orrore statunitense, e non solo di quello.
Oggi può sembrare banale; siamo così abituati al gioco citazionistico che neanche ci si fa più caso. All'epoca "Scream" rappresentò una novità dirompente.
Quindici anni e due seguiti (sottovalutati) dopo, l'ultimo dei quali risale alla preistoria del 2000, Craven ritorna a occuparsi dell'assassino con la maschera ispirata all'"Urlo" di Munch e firma forse il suo film più personale e sentito dai tempi di "Nightmare - Nuovo Incubo".
Doveva essere un flop annunciato "Scream 4", il patetico tentativo di un vecchio regista che da secoli non riusciva a confezionare un film decente, di sfruttare un marchio consolidato, spillando quattrini agli appassionati della saga e cercando di trascinare nelle sale anche qualche ragazzino, attratto dal cast di giovani stelline televisive e dalla promessa di più sangue e più omicidi.
Lo slasher non è più il principe incontrastato del genere. L'ultimo decennio ha portato il cinema horror a un nuovo livello; il pubblico, desensibilizzato, non si fa più impressionare da un killer con maschera e coltello. La soglia di sopportazione, il limite a ciò che su uno schermo è mostrabile, viene continuamente superato, fino ad arrivare alla conclusione che qualsiasi efferatezza può e anzi, deve essere sbattuta in faccia agli spettatori. È l'epoca del torture-porn, l'epoca in cui la saga di "Saw" fa parte della cinematografia commerciale alla stregua delle commedie romantiche e viene consumata da orde di ragazzini che chiedono solo più sangue, più violenza, più esposizione di viscere e corpi sventrati. Insomma, l'horror non abita più qui, l'idea di "Scream" è superata, è vecchia. "Scream 4" è il sequel più inutile della storia dei sequel.
E invece no, perché con questo nuovo capitolo Craven riesce a compiere il miracolo che non gli era riuscito con "Nightmare - Nuovo Incubo"; riesce a infondere malinconia e nostalgia ai suoi personaggi, sempre gli stessi tre (Neve Cambell, Courtney Cox, David Arquette) che invecchiati, segnati dal tempo e dai traumi, ritornano, un'ultima volta, a confrontarsi con le loro paure e con una nuova generazione che ha trasformato quelle paure in uno scherzo.
E allora "Scream 4" diventa quasi una dichiarazione di incapacità, un manifesto di incomprensione nei confronti di un mondo del tutto cambiato, di un modo di vedere e fare cinema in cui è impossibile rispecchiarsi, diventa l'orgogliosa rivendicazione di voler essere superati, di voler essere nostalgici. Non è il mio cinema questo, sembra dirci Craven a ogni inquadratura. Non è il mio orrore.
L'incipit del film, straordinario quasi quanto quello del primo "Scream", è esemplare in tal senso: tre film, incastrati l'uno dentro l'altro, tre omicidi, due sul piccolo e uno, quello "reale", su grande schermo; cinque morti in uno spazio di tempo brevissimo e delle linee di dialogo che illustrano, quasi come la prefazione di un libro, gli intenti di questo nuovo capitolo della saga. Ovvero, tentare una piccola riflessione su dove stia andando il genere a cui Craven ha dedicato un'intera carriera. E la risposta non è confortante.
Se in "Scream 2" (volutamente inferiore al capostipite) l'assassino voleva realizzare un sequel e in"Scream 3" una trilogia, questa volta il nostro killer sta tentando la strada del remake: i vecchi protagonisti non sono più al centro della scena, non sono più le vittime designate. Al loro posto c'è un giovanissimo cast di attori televisivi che tentano di ricoprire i ruoli di Sidney, Randy e Billy; il tasso di violenza degli omicidi si deve per forza alzare di qualche tacca, altrimenti non ci sarà nessun pubblico ad applaudire le gesta di Ghost Face; l'assassino filma con una webcam le proprie imprese, come negli horror in presa diretta che ultimamente fanno strage nei botteghini di tutto il mondo; le vittime sono più spavalde, meno spaventate, più consapevoli delle regole e dei meccanismi. L'ingenuità che era alla base degli slasher dell'epoca d'oro è del tutto perduta, insieme all'innocenza di una nuova generazione che è disposta a tutto pur di apparire.
Forse "Scream 4" sarebbe stato più coraggioso se la sceneggiatura avesse deciso di mettere fine alla vita dei tre superstiti dei film precedenti, lasciando le nuove leve del tutto padrone del campo, ma non credo si possa chiedere di più a un prodotto che, pur possedendo una visione personale, non abbandona mai la sua natura prettamente commerciale. Del resto parliamo di uno slasher vecchie maniere, in cui alla fine il killer deve morire e i personaggi positivi devono, in qualche modo, trionfare.
È però abbastanza singolare che le uniche figure a cui sembra andare la simpatia del regista siano gli anziani, Sidney, Dewey e Gale e che solo uno dei nuovi protagonisti sia in grado di suscitare un briciolo di empatia nello spettatore: Kris (interpretata da Hayden Panettiere), destinata alla fine peggiore tra tutte le vittime.
Una certa critica sociale è sempre stata presente nella serie, ma lo sguardo di Craven non è mai stato così distaccato e amaro nei confronti delle figure che si muovono sullo schermo. Potrebbe essere l'ennesima stoccata alla moda del remake con le sue belle statuine bidimensionali che hanno la sola funzione di essere massacrate; o potrebbe semplicemente essere cattiva scrittura. Ma, se si conosce bene la filmografia del regista e l'attenzione che Craven ha sempre riservato ai suoi personaggi, è evidente come questo distacco non sia casuale e si tramuti in una critica più feroce del solito all'indifferenza e al vuoto delle nuove generazioni.
L'inizio del 2011 ha visto, quasi in contemporanea, il ritorno di due grandi registi che hanno a modo loro segnato la storia dell'horror. "The Ward" di John Carpenter e "Scream 4" sono apparentemente due film diversissimi tra loro, ma in realtà hanno molte similitudini nell'atteggiamento con cui i due maestri gestiscono la materia e si confrontano con un genere che ha subito delle trasformazioni sconvolgenti nell'ultimo decennio: entrambe le opere evidenziano un rifiuto radicale della contemporaneità, un rifugio orgoglioso nel passato e la rassegnata presa d'atto di appartenere a un'epoca tramontata definitivamente. Ma mentre Carpenter porta questo rifiuto alle più estreme conseguenze, ambientando "The Ward" negli anni '60, fregandosene del pubblico odierno ed evitando qualsiasi contenuto politico o sociale, Craven, sempre attirato dal compromesso, cerca di ancorare il suo film ai tempi attuali. E se per esigenze di botteghino è obbligato a strizzare l'occhio alle nuove generazioni, nel frattempo le bastona senza pietà, facendo di questo "Scream 4" una dichiarazione d'amore per l'horror e per il pubblico dei bei tempi andati.
"Scream 4" non è un film postmoderno, come lo era il suo capostipite. Ci si prende gioco del nuovo e si guarda con rimpianto al vecchio. "Scream 4" è un film sinceramente e profondamente nostalgico e proprio per questo motivo, nonostante le aspettative, del tutto riuscito.
Malgrado l'atmosfera malinconica che si respira per tutta la sua durata, questo quarto capitolo funziona alla perfezione come puro meccanismo di intrattenimento: è divertente, non annoia mai, la scoperta dell'assassino non è del tutto scontata e, come sempre, Craven gira con grande professionalità e competenza, da profondo conoscitore del genere e delle sue regole. Basta guardare la sequenza dell'aggressione a Gale nella fattoria per rendersi conto di come il regista non abbia perso la mano e sia in grado di costruire validi momenti di tensione.
La sceneggiatura del solito Williamson alterna battute di grande ironia a momenti discutibili (la morte del poliziotto grida vendetta), ma risulta piuttosto solida, priva di voragini logiche ed è disseminata di piccole perle che faranno felici gli appassionati e i feticisti del genere.
La narrazione si appesantisce un po' nella parte centrale del film, ma si riscatta con il finale che è forse tra i migliori visti in uno slasher negli ultimi anni.
Insomma, operazione pienamente portata a buon fine. "Scream 4" è da promuovere senza riserve, soprattutto per chi è cresciuto con Craven e i suoi adolescenti sempre più cinici e disillusi.
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Recensione a cura di L.P. - aggiornata al 19/04/2011 14.56.00
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