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E' piuttosto raro che uno scrittore riesca ad esprimere la propria poetica con eguali risultati anche al cinema, nelle vesti di regista: il caso più celebre è quello di Pier Paolo Pasolini, il più recente quello di Federico Moccia.
E già la semplice dissonanza insita in un simile blasfemo accostamento dovrebbe far riflettere.
Storia curiosa, quella del portentoso autore di capolavori immortali quali "Tre metri sopra il cielo", "Ho voglia di te", "Scusa ma ti chiamo amore" e "Cercasi Niki disperatamente": figlio del regista Giuseppe che, dietro lo pseudonimo di Pipolo ed in coppia col collega Franco Castellano, fu il principale responsabile della tracimazione sul grande schermo del Re degli Ignoranti (al secolo Adriano Celentano), Federico Moccia ha condotto per anni una vita dietro le quinte, in qualità di autore di programmi televisivi dal profondo tasso culturale come "Ciao Darwin". Nel 1992 scrive il suo primo libro, il già citato "Tre metri sopra il cielo", avente per oggetto il difficile amore tra una ragazzina della Roma bene ed un coattello di borgata. Il romanzo, scritto in modo dilettantesco e tronfio di un infantilismo disarmante, viene giustamente scartato da tutte le case editrici, ma l'ostinato Federico ne pubblica comunque 2.500 copie a proprie spese. Grazie al passaparola degli zelanti adolescenti romani, il libro si impone all'attenzione delle grandi case editrici che, notato il fenomeno, decidono di approfittarne: pubblicato da Feltrinelli, "Tre metri sopra il cielo" diventerà un bestseller e farà di Federico Moccia una delle più moleste voci del panorama letterario italiano.
Un simile successo di pubblico non poteva non far gola all'industria cinematografica, puntualmente preoccupatasi di imbastire l'adattamento per il grande schermo sia di "Tre metri sopra il cielo" che del suo seguito "Ho voglia di te": le due produzioni Cattleya, diretti dalle incolpevoli pedine Luca Lucini e Luis Prieto, bissano prevedibilmente il successo dei libri omonimi ma lasciano profondamente scontento il loro autore, che non ritiene che i due film in questione ne rispecchino pienamente lo spirito rivoluzionario.
Dopo essere emigrato verso lidi Rizzoli ed aver completato la stesura della sua terza fatica "Scusa ma ti chiamo amore", l'intellettuale di Corso Trieste Federico Moccia decide di non cedere i diritti del voluminoso tomo a nessun altro che non sia egli stesso: nasce così il progetto del film omonimo.
La storia è quella di un trentasettenne, Alessandro detto Alex (Raul Bova), che, lasciato dalla propria ragazza (Veronica Logan), si innamora di una diciassettenne smaliziata, Niki (Michela Quattrociocche). Nulla sembra andare per il verso giusto, ma alla fine l'amore trionferà, all'ombra di un faro nel mezzo del Mediterraneo.
Non stupisce che un simile campionario di cliché a buon mercato attecchisca presso un pubblico adolescenziale di scarse pretese, carico com'è degli stessi ingredienti che già avevano decretato il successo di tutti i romanzi Mocciani:
1. un rapporto amoroso reso difficile dall'appartenenza dei protagonisti a due mondi troppo diversi tra loro;
2. caratterizzazioni quanto più stereotipate possibili, in modo da evitare ogni possibile ostacolo ad una lettura totalmente passiva;
3. protagonisti carichi di un fascino estremamente superficiale - bellissimi, trendy, pieni di accessori alla moda minuziosamente elencati - e per ciò stesso desiderabile dal lettore previamente lobotomizzato grazie al sottile procedimento di cui al superiore punto 2;
4. uno stile (registico in questo caso, di scrittura con riguardo ai romanzi) sciatto e volgarmente scarno, teso ad eliminare qualsiasi riferimento che non riguardi strettamente l'abbigliamento dei personaggi o il loro stile fashion victim.
Ciò che rende Federico Moccia e la sua produzione dannosi per il panorama culturale italiano è piuttosto l'indisponente arroganza con cui questi si eleva ad intellettuale contemporaneo, voce libera delle istanze giovanili che in lui trovano cassa di risonanza; ancora più pericoloso è però il fatto che tanta, troppa gente preferisca dargli corda piuttosto che fargli presente l'assoluta inconsistenza di qualunque cosa fuoriesca dalla sua penna: nel timore di passare per reazionari, si fa quasi a gara a giustificare il fenomeno-Moccia piuttosto che relegarlo nel posticino che gli competerebbe, quello dei romanzetti che da sempre hanno attratto grandi masse perché furbetti o di immediata fruibilità.
Accade così che venga indetto dal Comune di Roma un concorso sul miglior sms d'amore, e che il vincitore venga premiato con un lucchetto dorato da attaccare sul lampione di Ponte Milvio in segno di pegno d'amore (moda questa lanciata da "Ho voglia di te") e che presidente di giuria sia lo stesso Moccia, e che nel frattempo il ponte in questione sia diventato un deposito di ferraglia e che il lampione sia crollato nel Tevere; accade poi che Moccia nel proprio sito internet si senta in dovere di lasciarsi andare in una patetica autocelebrazione che si vorrebbe poetica risolvendosi in pornografia spicciola; accade che Federico Moccia sia chiamato ad intervenire presso corsi di scrittura creativa tenuti nella capitale; accade che l'anteprima di "Scusa ma ti chiamo amore" venga proiettata al Liceo Classico "Giulio Cesare" di Roma, e che il preside non provi vergogna nel presentarlo come evento culturale; accade infine che lo scrittore/regista si senta in diritto di ingolfare il proprio film d'esordio di citazioni in sovrimpressione in cui autori come Shakespeare, Whitman, La Rochefoucauld e Wilde sono ridotti a pallidi aforismi da baci Perugina ("L'amore è come i fantasmi: tutti ne parlano ma solo pochi l'hanno visto veramente").
Se non fosse così pieno di velleità, "Scusa ma ti chiamo amore" sarebbe anche potuto essere una commediola sentimentale senza particolari pretese e per ciò stesso divertente; la fastidiosa supponenza del regista/sceneggiatore/intellettuale del caso, però, reagendo con la sua conclamata incapacità, dà luogo ad un composto esplosivo che brilla esclusivamente per la propria inadeguatezza sotto ogni punto di vista: vuoto, superficiale, scontato in ogni suo passaggio, a partire dall'attività lavorativa del protagonista (grafico pubblicitario, lavoro ggiovane che più ggiovane non si può) fino al trionfo dell'amore del finale, in cui Alex capisce l'importanza del suo rapporto con Niki e fugge con lei a vivere su uno scoglio, in un faro, abbandonando il lavoro: chissà che armonia regnerà nella coppietta felice dopo la seconda settimana passata a pane, alghe e pesci.
Tremendi i dialoghi, alcuni dei quali raggiungono vette trash di tutto rispetto: si va dalla presentazione di Niki e delle sue amiche - dette le Onde, ed ogni ulteriore commento sarebbe superfluo - mentre simulano una sfilata ridendo come matte, alle perle di saggezza della giovane Olly ("I ragazzi vanno sfruttati! Sesso, solo sano sesso!", oppure "Ma che mi frega di quando avrò 40 anni? La vita è adesso!"), passando per l'amara constatazione rivolta dall'ex ragazzo di Niki nei corridoi della scuola alla sua scosciata coetanea, in perfetta dizione torpignattara: "Lo sai perché ce siamo lasciati? Perché sei 'na rosicona!"
Quanto alla recitazione, nel disastro generale si salva esclusivamente il povero Luca Ward, il cui volto tradisce perennemente il desiderio di essere altrove; per il resto, Raul Bova ce la mette tutta per sembrare spontaneo ma l'impresa è improba ed alla fine non sarebbe giusto addossargli colpe non sue, mentre il branco di ragazzotti assortiti è francamente disarmante nella propria pochezza. Non che ci si aspettasse chissà che, ma almeno un briciolo di dignità attoriale sarebbe stata ben accetta; Moccia sembra invece essersi preoccupato piuttosto di imbastire un pollaio di ragazzine avvenenti dall'accento insopportabile.
Almeno in questo può dire con orgoglio di aver centrato il bersaglio.
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Recensione a cura di Jellybelly - aggiornata al 07/02/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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