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Si aprono le vorticose danze di questo sequel a 100 all'ora con l'Irene Adler di Rachel McAdams, ambasciatrice portatrice di pena per conto dell'oscuro Moriarty. Il nemico di turno ha la faccia malmostosa di Jared Harris (talentuoso bazzicatore delle serie tv americane, una su tutte "Fringe"), cervello criminale da mad man, causa potenziale di una crisi d'Europa e ambita conseguenza di un traffico d'armi infallibili, giocatore di scacchi come ogni superkattivo che si rispetti.
Quella che era la protagonista femminile del film precedente ha, stavolta, breve vita sullo schermo, cede il passo ad una meno incisiva e molto folkloristica Noomi Rapace/Simza, zingara scaltra e seducente solo nelle note di sceneggiatura. Tuttavia, della Adler non si esclude un ritorno (dopotutto plausibile in un mondo caleidoscopico dove Holmes sopravvive ad una – letterariamente leggendaria - caduta in un dirupo, che per Arthur Conan Doyle sarebbe stato un amaro dejà vu); anche se come coprotagonista ci basta e avanza Jude Law, l'affascinante dottore (entrambi nella coppia sono interscambiabili braccio e mente), estremamente a suo agio nel ruolo brillante e baffuto di Watson.
Lo charme psicotico del detective che ha ormai appeso al chiodo i classici cappello e pipa, per lanciarsi in una girandola di travestimenti, è, per la seconda volta, jacksparrowianamente irresistibile. Chiaro che tocca riconoscere la paternità alla saga dei Caraibi e, appunto, al gagliardo e stralunato corsaro; ma laddove c'era una decostruzione dello stereotipo piratesco, fatto combaciare con gli idoli rock della nostra epoca, qui v'è una studiata ricostruzione di un cliché altrettanto classico e sfizioso, colorato di attualità fumettistica. E laddove il successo si posava sulle spalle dell'azzardo (di) Depp, qui è diretto derivato di una calcolata equazione di strizzate d'occhio a ciò che (com)piace, con un protagonista programmaticamente irresistibile che allestisce un one man show ammiccante, rampante e vagamente queer.
Supereroe sfatto e strafatto, che aziona la mente e rivela una dichiarata abilità ("la mia maledizione") da Cassandra, Downey Jr. scatena l'empatia per la sua - in fondo tenera - incapacità di star lontano dai guai e soprattutto da Watson, ritrovandosi e riproponendosi ostinatamente attaccato (i riferimenti all'ambiguità sessuale del nostro sono ancor più audaci) all'unico contatto umano che la sua stravagante, fiera auto-emarginazione (più che asocialità) gli concede.
Non-solo-Robert, comunque, contribuisce ad alzare il grado d'attenzione per questo secondo capitolo di quella che sarà, forse, una curiosa trilogia: l'esplosiva metafora sull'oggi, con il capitalismo e la repressione delle disuguaglianze, si specchia in un rimando continuo ed allusivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando, all'epoca, era la Grande Guerra ad essere alle porte.
La fotografia a tratti livida picchetta gli emarginati braccati ("Io sono ricercato" "E io non ho documenti": gli stessi protagonisti sottolineano come sia precisamente questa la situazione di assediamento e terrorismo sottotraccia che Moriarty e altri come lui vogliono creare); e persino il momento verso cui è stato più puntato il dito, accusandolo di tronfio manierismo e persino di gratuita tamarraggine (!), è funzionale ai rimandi evocativi dei primi anni del novecento: bellici, opprimenti e rinchiusi (sospesi e dunque rallentati) tra fumo, fughe e pallottole.
Gioco di incastri e rimandi più che di ombre, al di là dei suoi punti di forza visibili e sottintesi, il roboante seguito ribadisce la (e vive della) centralità della "relazione atipica" fra i due colleghi, ancor più che il gioco vero e proprio – quello del gatto col topo di Holmes con Mortiarty e di Moriarty con Holmes: gioco che iniziano e finiscono irrimediabilmente insieme –; ed è intrattenimento fino che, come capita raramente, non va a periodi, ma è un unico sorso che lascia senza fiato e con un retrogusto soddisfacente a scoppiettare nella gola cinefila, rischiarata da un blockbuster intelligente (forse il migliore del 2011 insieme ad "X-Men: l'inizio").
Trapela scoppiettante il 'Guy Ritchie style' nelle accelerazioni di ritmo del montaggio, nella gigioneria indistricabile dei dialoghi e nell'irriverenza cialtrona dei personaggi (arriva persino il francamente risibile fratello gay e nudista di Holmes (Microft, Stephen Fry).
Il punto di domanda della Fine è quasi pleonastico: franchise che vince, non si (s)cambia. A furor di popolo.
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Recensione a cura di Fiaba - aggiornata al 28/02/2012 18.09.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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