Recensione shutter island regia di Martin Scorsese USA 2010
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Recensione shutter island (2010)

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locandina del film SHUTTER ISLAND

Immagine tratta dal film SHUTTER ISLAND

Immagine tratta dal film SHUTTER ISLAND

Immagine tratta dal film SHUTTER ISLAND

Immagine tratta dal film SHUTTER ISLAND

Immagine tratta dal film SHUTTER ISLAND
 

Nell'orizzonte dell'infinito.
Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave!
Abbiamo tagliato i ponti dietro di noi, ancor più,
abbiamo tagliato la terra dietro di noi!
Nietzsche: "La Gaia Scienza", 124

I romanzi dello scrittore statunitense Dennis Lehane, da alcuni anni a questa parte, sono molto amati dai cineasti americani. "Mystic River" (2001) è stato il suo primo romanzo ad avere una trasposizione cinematografica per opera di Clint Eastwood nel 2003. Poi, è stata la volta di "Gone, Baby, Gone" (1998), romanzo appartenente alla serie dedicata al detective Patrick Kenzie, trasportato sullo schermo da Ben Affleck nel 2007.
"Shutter Island", tratto dall'omonimo romanzo del 2003, è stato voluto da Martin Scorsese, che appare nella duplice veste di regista e di produttore della pellicola.

Il film è ambientato nel 1954 e racconta la vicenda di due U.S. Marshal, Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e Chuck Aule (Mark Ruffalo) che sbarcano a Shutter Island, un'isola a largo delle coste del New England interamente adibita a manicomio criminale, per risolvere il caso di una paziente di nome Rachel Soldano (Emily Mortimer) scomparsa misteriosamente. Allo sbarco dal traghetto, gli investigatori sono accolti da un presidio di guardie armate, comandate dal vicedirettore Warden McPherson (John Carroll Lynch), che dimostra subito una certa ostilità nei loro confronti, obbligandoli a consegnare le proprie armi e a riconoscere la sua superiore autorità. Le cose non migliorano durante l'incontro con il mellifluo dottor Cawley (Ben Kingsley), che offre una collaborazione all'indagine che ben presto sconfina nella reticenza. A causa di una violenta tempesta Daniels, che vorrebbe rientrare a Boston per redigere un rapporto contro l'atteggiamento del dottor Cawley, e Aule non possono abbandonare l'isola e sono costretti a continuare l'indagine.
In un crescendo claustrofobico di paranoia Daniels, che è vittima di emicranie e di incubi ricorrenti, si trova ad indagare sull'intera struttura ospedaliera di Shutter Island, cominciando a dubitare di tutto e di tutti.

Per analizzare correttamente questa pellicola è necessario scomporre i suoi molteplici strati, che si presentano allo spettatore con la classica struttura a cipolla.
La superficie più esterna è costituita dalla trama, propria del romanzo stesso di Lehane, intorno alla quale è costruito il film.
La storia ha un impianto narrativo classico, tendenzialmente lineare e affatto innovativo. Le tematiche affrontate sono in alcuni casi abusate e comunque viste in decine di altri film.
Intorno a questo soggetto, quindi, Scorsese costruisce un film dalla struttura formalmente assai classica che parte da un enigma, si sviluppa in un'indagine e termina con un epilogo chiarificatore. In questo schema niente è lasciato al caso. La progressione narrativa offre un'alternanza ottima dei ritmi e dei tempi che preparano sapientemente le atmosfere, dalla vaga suggestione gotica, la caratterizzazione del protagonista intorno al quale ruota l'intera vicenda, le pause di riflessione e i momenti di azione, la costellazione di indizi e la soluzione dell'enigma.
La visione del film già potrebbe arrestarsi a questo primo strato, la superficie di "Shutter Island", in cui l'onestà narrativa conduce ad un epilogo annunciato già a metà film e che, probabilmente, lo spettatore più attento avrà intuito assai prima. Questo genere di prevedibilità è il solo ad avere una valenza positiva nell'arte cinematografica, proprio perché è il frutto di una progressione narrativa accurata e onesta nei confronti del pubblico. Tuttavia, la prevedibilità che si accompagna ad una storia assolutamente non originale, può partorire al massimo un discreto prodotto di intrattenimento.
Ciò sarebbe vero se tutti questi elementi fossero nelle mani di un regista esordiente o, comunque, alle prime armi, ma qui sono nelle mani di uno dei più grandi cineasti viventi e il risultato si nota.
Scorsese, infatti, rielabora l'ordinario e sa trasformarlo in straordinario.
Ad aiutarlo c'è indubbiamente la sceneggiatura scritta da Laeta Kalogridis. Si tratta di un lavoro assai equilibrato, la cui armonia e completezza garantiscono un ritmo narrativo in continuo crescendo, che permette alla regia di creare una tensione costante ed un'angoscia palpabile, che attanaglia lo spettatore dai primi minuti e non lo abbandona neppure quando sullo schermo stanno scorrendo i titoli di coda.

Martin Scorsese cura scrupolosamente e dettagliatamente la dimensione estetica della propria regia, avvalendosi dell'eccellente fotografia del bravissimo Robert Richardson, con cui ha già collaborato in "Casino" (1995) e in "The Aviator" (2004), e delle sontuose scenografie di Dante Ferretti e di Francesca Lo Schiavo con i quali ha già collaborato in "Kundun" (1997) e in "Gangs of New York" (2002) oltre che nei due film già citati.
In questa dimensione estetica la regia di Scorsese va analizzata sotto due differenti profili. Il primo riguarda le scelte tecniche volte a coinvolgere lo spettatore, calandolo nella suggestione delle atmosfere tetre ed angoscianti, così ben preparate dal lavoro degli scenografi e del direttore della fotografia. Il secondo profilo è invece di carattere più prettamente simbolico. In questo caso la regia sposa la storia narrata valorizzandola attraverso il ricorso agli archetipi propri di quella simbologia, che permea l'intero tessuto narrativo, e li accompagna con dei movimenti di camera che si rendono interpreti delle situazioni vissute dai personaggi. Prima di argomentare questi due punti, occorre fare una premessa.
Martin Scorsese è sempre stato un regista creativo ed innovativo. La sua arte si è districata nel corso degli anni, passando di opera in opera, ricercando nuovi modelli narrativi, capaci di uscire dalla gabbia degli schemi classici e atti a valorizzare ai massimi livelli il talento creativo del regista, che fossero un tramite emotivo diretto fra la storia che si racconta e il pubblico.
Nel caso specifico la storia ha un impianto narrativo classico e quindi la regia adotta a propria volta un registro classico, ma questo non imbriglia la maestria di Scorsese, come invece alcuni critici hanno scritto.
Per ciò che concerne il primo profilo, Scorsese alterna con sapienza inquadrature panoramiche e campi lunghi a lente soggettive che introducono il protagonista, e il pubblico con lui, all'interno degli ambienti. In questo caso l'angolo dell'inquadratura è sempre spostato dal basso verso l'alto, suggerendo così un senso di incombenza e di minaccia tanto dei luoghi quanto delle persone e rafforzando il senso di claustrofobia già insito nelle scenografie. Per rafforzare questo senso di oppressione, la regia ricorre anche ad inquadrature dall'alto, perpendicolari agli elementi dell'azione. Si pensi ad esempio al cancello del muro di cinta che si chiude, o al protagonista fra gli scogli frastagliati e le insenature che si riempiono d'acqua, o ancora al protagonista che si destreggia sulle passerelle di metallo all'interno del complesso C.

Da questo punto in poi si sconsiglia la lettura di quanto segue a chi non avesse prima visionato il film, poiché se ne sveleranno i principali colpi di scena incluso il suo finale.

Come abbiamo detto, la storia narrata ha un impianto classico e scarsissimi elementi originali. Si potrebbe dire che "Shutter Island" sia la versione thriller ed edulcorata dell'ottimo film "Frances" (1982) di Graeme Clifford che racconta la vera storia di Frances Farmer, attrice estroversa e anticonformista, incapace di integrarsi in una società moralista, bigotta ed uniformata, che dovette affrontare un calvario giudiziario e psichiatrico, costellato di stupri tanto fisici quanto psicologici, che culminò nella violenza legalizzata di una lobotomia.
Il mondo che Teddy Daniels sembrerebbe scoprire a Shutter Island, non è quello formato da una società bigotta e moralista, bensì un girone dell'inferno in cui il governo porta avanti esperimenti segreti sull'essere umano, nascondendosi dietro la facciata di un ospedale psichiatrico criminale. Gli elementi che entrano in gioco sono tantissimi: l'eugenetica, il nazismo, il comunismo, il maccartismo, la scienza che assurge a religione, lavaggio del cervello, manipolazione delle coscienze, i complotti di stato.
Quello che resta, però, una volta svelato il mistero è un altro elemento: la dicotomia fra la realtà e la percezione della stessa.
Tutti gli elementi elencati in precedenza sono stati trattati dalla cinematografia in modo assai approfondito ed esaustivo. Un cinefilo del calibro di Martin Scorsese, non poteva non tenerne conto. Fra i film in questione vengono subito alla mente le pellicole di Robert Aldrich, di John Frankenheimer, Nicholas Ray, Don Siegel. In particolare sono evidentissimi i riferimenti a "Vai e uccidi" ("The Manchurian Candidate", 1962) e a "L'Uomo di Alcatraz" ("Birdman of Alcatraz", 1962), ma anche a "Piano... Piano, Dolce Carlotta" ("Hush... Hush, Sweet Charlotte", 1964) e a "Rivolta al blocco 11" ("Riot in Cell Block 11", 1954), e si potrebbe continuare a lungo. Ma, si badi bene, queste sono pellicole cui Scorsese accenna, poiché hanno trattato con grande impegno, alcune delle tematiche presenti in "Shutter Island", tuttavia non sono questi i modelli di riferimento ai quali il regista newyorchese rende omaggio. Poiché la struttura del film è quella tipica del thriller psicologico con venature orrifiche, Scorsese si è lanciato in un oceano di citazioni tratte dal cinema di genere, tanto vasto da far impallidire anche Quentin Tarantino.
Troviamo infatti citazioni da "Il Vampiro dell'Isola" ("Isle of Dead", 1945) e "Manicomio" ("Bedlam", 1946) entrambi di Mark Robson, da "Il Bacio della Pantera" ("Cat People", 1942) e "Ho Camminato con uno Zombie" ("I Walked whit a Zombie", 1943) di Jacques Tourneur, di cui, volendo, si potrebbe aggiungere anche "Le Catene della Colpa" ("Out of the past", 1947), da "Cul de Sac" (1962) e da "Rosemary's Baby" (1968) di Roman Polanski. Tutto questo senza dimenticarci dell'intera cinematografia di Alfred Hitchcock, cui Scorsese rende omaggio soprattutto nelle sequenze oniriche che fondono e confondono i ricordi e le paure.

Il percorso cui Scorsese invita lo spettatore attraverso l'indagine svolta da Teddy Daniels è un viaggio all'interno di un labirinto di paure (in tal senso non era poi così sbagliato il titolo italiano del libro di Lehane). Se poi si considera che si tratta di un'indagine psicologia ed introspettiva, la simbologia diviene l'elemento dominante.
Freud spiegava la divisione della psiche umana in conscio, preconscio e inconscio attraverso l'immagine dell'iceberg in cui la parte emersa, visibile a tutti, è il conscio, la linea di galleggiamento è il preconscio e la parte sommersa, la più ampia ed imperscrutabile, è l'inconscio.
E così noi ci troviamo in un'isola dove Laddies, la nemesi di Daniels, si nasconde nell'impenetrabile blocco C, ricavato da un fortino della guerra di secessione. Una fortezza arroccata in cima alla scogliera, con interni tetri, imperscrutabili e labirintici. Un'evidente forma di protezione dell'intima identità dell'individuo. Poi abbiamo un faro. Una fonte di luce che avverte i naviganti dell'incombente pericolo. Il faro spezza l'inganno del buio della notte e avverte che in quel luogo non c'è più una piatta distesa d'acqua, bensì alti scogli contro cui è facile sfracellarsi.
Non è un caso che la soluzione degli enigmi che tormentano Daniels si celi appunto all'interno del faro. Ma, a questo punto, andiamo a vedere dov'è fisicamente posizionato questo faro. Esso non si erge, come ci si potrebbe aspettare in cima ad una ripida scogliera, bensì è al livello del mare. Ossia è sul limen fra l'inconscio e il conscio, non è solo una luce nelle tenebre, ma è un filtro, la transizione fra le due istanze psichiche.

"È soltanto acqua!", dice Teddy Daniels, fra un conato di vomito e l'altro, mentre è a bordo del traghetto che lo conduce a Shutter Island.

La metafora acquatica delinea questo confine durante tutto il film: l'acqua circonda Shutter Island tenendola lontana dal continente, è nell'acqua del lago che Rachel ha annegato i suoi tre figli, è l'acqua del mare che separa il faro dall'isola, è l'acqua della pioggia che si infiltra fra i mattoni del dormitorio e imbeve gli abiti del protagonista.

"Amore, perché sei tutta bagnata?"

L'acqua segna quel limen fra l'inconsapevolezza e la presa di coscienza.

Il faro è la più potente, ma non è la sola fonte di luce. Anche all'interno del blocco C Daniels, mentre tutte le voci dei pazienti detenuti pronunciano minacciosamente il nome di Laddies, ha bisogno di luce. Un bisogno che egli soddisfa con una scatola di fiammiferi, che, più che illuminare l'ambiente, sono utili a illuminare il suo stesso volto. Ossia la sua stessa identità.

Dove si nasconde, invece, la Rachel Soldano versione seconda (Patricia Clarkson)?
In un anfratto. In una grotta buia e infestata dai ratti, che fuggono dai pertugi quando questa accende un fuoco. Un fuoco che è una nuova fonte di luce su una verità nascosta nella roccia dell'Io dove anche Daniels trova rifugio.
Ed e così, attraverso una ricerca visiva accuratissima, che Martin Scorsese sposa la storia narrata con le immagini. La suggestione è coronata da una vastità di dettagli che spaziano dalle visioni cimiteriali ad una cripta che diviene riparo nella tempesta, alle luci che sono così bianche da accecare, al sangue di un rosso vermiglio, così tipico della filmografia di Scorsese, che si alterna al rosso delle fiamme e al grigio della cenere, saloni austeri e ricchi di decori cupi estremamente gotici, sotterranei umidi e minacciosi dalla struttura labirintica, catene e celle comuni in cui i pazienti sono imprigionati completamente nudi, una scala a chiocciola che conduce alla verità. I flashback si confondono in deliri onirici di una forza straordinaria, dove la leggerezza dei fogli che svolazzano nella stanza del colonnello delle SS di Dachau è immediatamente compensata dal dettaglio di un piede che schiaccia a terra una pistola, dove il dolore per la perdita della moglie si compensa in un abbraccio languido, dove l'orrore dell'omicidio si cancella nel sorriso di un'apparenza di normalità quotidiana, così artefatta quanto lo è il fumo che viene riassorbito dalla sigaretta che lo sprigiona. Una suggestione gotica a trecentosessanta gradi, mai fine a se stessa e ricca di indizi.
Ma non è alla prevedibile soluzione dell'enigma, che Scorsese vuole condurre lo spettatore, né al troppo facile ribaltamento dei ruoli in base al quale tutti coloro che appaiono essere dei mostri in realtà sono solo delle persone che stanno facendo di tutto per aiutare il protagonista.
Parte della critica, soprattutto italiana, ha accusato Scorsese di aver impresso in questa pellicola un messaggio troppo consolatorio e troppo rassicurante. Essi avrebbero indubbiamente preferito che fossero vere tutte le paure che Daniels, e il pubblico insieme con lui, vive durante le due ore di film. Avrebbero preferito che vi fosse un complotto governativo neonazista, volto all'eugenetica e al lavaggio del cervello. Se così fosse stato, allora davvero il film sarebbe scaduto nella più completa banalità e, come accennato prima, nella trattazione di argomenti già trattati decine e decine di volte.
Queste sono le paure, i fantasmi che Scorsese rievoca. E non ha nessuna importanza che siano reali o meno: sono messaggi che arrivano comunque diretti come un pugno nello stomaco. Una paura non necessita di essere reale per incutere terrore.

"Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da persona per bene?"

Questo non è un messaggio consolatorio né edificante. In questa frase si concretizza il vero rovesciamento dei ruoli.
La terapia psicanalitica ha avuto successo e Daniels ormai ha preso coscienza di sé e del proprio passato. I medici hanno conseguito il loro scopo istituzionale, ossia guarire il paziente. Il cervellotico Gioco di Ruolo creato dal dottor Cawley ha funzionato ed ha obbligato l'Io del paziente ad ammettere ciò che si era nascosto nei meandri del suo Es. Questo è in effetti il fine di una psicoterapia. Ma Daniels non accetta la propria guarigione. Egli si definisce un mostro per non essere stato capace di comprendere a fondo lo stato psicologico della moglie e si fa carico della responsabilità della morte dei suoi figli, benché non sia stato lui ad ucciderli. In realtà egli non si è macchiato di un crimine come quello che già si rimprovera per la strage dei nazisti nel campo di Dachau. Egli ha ucciso sua moglie, ma non l'ha assassinata, l'ha liberata o, in un'ottica più confacente al quel determinato contesto storico e culturale, l'ha giustiziata.
La guarigione obbliga Daniels ad accettare quella realtà senza più rifugiarsi all'interno di un labirinto di paure e di menzogne. Ma il dolore per lui è insopportabile, al punto di fingersi ancora malato e di sottoporsi ad un intervento di lobotomia, che in questo caso si profila come una rimozione chirurgica della sofferenza. In questa ottica la verità non è un bene e la cura stessa è un male.
La cura comporta l'accettazione di una realtà che il paziente rifiuta e così si trasforma in violenza psichica, in gabbia per l'essere straordinario che deve essere ricondotto all'ordinario, il soccombere della fantasia di fronte alla realtà, conformazione dell'anticonformista, riconduzione del diverso all'uguaglianza.

Alla fine l'indagine compiuta da Scorsese è quella sulla dicotomia fra la realtà e il modo in cui essa è percepita e filtrata.
Il mondo visto da un folle è forse meno reale di quel mondo che vedono le persone "normali"?
In questo senso continua quella ricerca spirituale su cui Scorsese ha sempre indagato. E in questo c'è una linea di continuità diretta fra "L'ultima Tentazione di Cristo" e "Shutter Island".

"Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!
Come possiamo consolarci, noi assassini di tutti gli assassini?
Ciò che il mondo possedeva di più santo e possente, si è dissanguato sotto i nostri coltelli.
Chi ci toglierà di dosso questo sangue?
Con quale acqua potremo lavarci?
"
Nietzsche: "La Gaia Scienza", 125.

Scorsese indaga sulle lacerazioni interne all'animo dell'uomo prodotte dalla necessità di dover scegliere fra ciò che si desidera e ciò che si deve fare, fra il bene e il male, fra il giusto e lo sbagliato. L'uomo è combattuto, dilaniato e sofferente. Troppo spesso è costretto a rinunciare alla gioia per abbracciare il dolore.
La lobotomia è una sconfitta per i medici, ma è la scelta di Daniels. E qui è in gioco un principio etico superiore: il diritto di disporre di se stessi. La lobotomia cui Daniels vuole essere sottoposto è come un'eutanasia. Il diritto di scelta del paziente è stato violato dai medici che lo hanno obbligato a guarire. L'uomo non ha più il diritto di scegliere che cosa sia meglio o peggio per lui. È la società ad imporgli quello che essa reputa essere la cosa migliore.
Inoltre, non diversamente dall'aforisma 125 della Gaia Scienza, né diversamente da Amleto, l'uomo folle è l'uomo che dice la verità. Perché è vero che a Shutter Island tutti i medici, tutti gli inservienti, tutti gli infermieri, sono complici di una congiura destinata a distruggere il mondo immaginifico che Daniels ha costruito intorno a sé per proteggersi dal dolore e dalla sofferenza.
Non c'è niente di edulcorato in tutto ciò. Non c'è niente di rassicurante.
È evidente che tutte le paure che Daniels attraversa, anche se false, sono concrete.
La violenza che egli subisce a "fin di bene", qualcun altro potrebbe subirla per fini abietti, magari proprio perché semplicemente anticonformista o perché dissidente politico.

In sostanza Martin Scorsese ha curato la dimensione estetica di questo suo nuovo film, senza trascurare minimamente quelle che sono le caratteristiche tipiche del suo modo di concepire il cinema, coniugando sapientemente le immagini alla storia narrata, ai messaggi più palesi che essa vuole trasmettere e anche a quelli più reconditi.
Una regia perfetta che si sposa ad una sceneggiatura, poco originale, ma scritta assai bene.

Gli attori sono straordinari. Inutile sottolineare per l'ennesima volta le capacità artistiche di Ben Kingsley, di Max Von Sydow, di Mark Ruffalo, di Elias Koteas e di Ted Levine.
Continua a non soddisfare pienamente Leonardo DiCaprio che, a parere di chi scrive, è un attore assolutamente sopravvalutato. Comunque se ne riconosce l'impegno e l'evoluzione artistica che contrassegna con evidenza la sua carriera. Ed è anche vero che nell'interpretare personaggi tormentati e intimamente fragili, questo attore sa dare il suo meglio. Tuttavia in troppe occasioni presenta una rigidità espressiva che difficilmente riesce a farlo evadere da quello che è e resta il suo personaggio principale: Leonardo DiCaprio. Per chiarire più specificatamente quello che si intende, si invita il lettore ad osservare l'immagine di DiCaprio nelle locandine di "Gangs of New York", di "The Departed" e di "Shutter Island".

"Shutter Island" è un film visivamente seducente, esteticamente superbo e tecnicamente ottimo, con ritmi incalzanti ed atmosfere inquietanti. È una pellicola che intrattiene chi si vuole limitare alla visione di un thriller psicologico e che lascia molti spunti di riflessione a chi vuole addentrarsi nei labirinti che si nascondono sotto la sua superficie esteticamente perfetta.

"Noi ci siamo costruito un mondo in cui poter vivere ammettendo corpi, linee, superfici, cause ed effetti, moto e quiete, forma e contenuto.
Senza questi articoli di fede nessuno adesso riuscirebbe a vivere!
"
Nietzsche: "La Gaia Scienza", 121, "La Vita non è un Argomento".

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 12/03/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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