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Kuki Gallmann (Kim Basinger), 25 anni, è una nobile veneziana divorziata, ha un figlio piccolo, Emanuele, con cui vive a Venezia.
Una sera, dopo una festa con amici, durante il ritorno a casa la donna perde il suo compagno di vita in un incidente stradale, mentre lei e gli altri passeggeri rimangono solo feriti. Nella convalescenza Kuki incontra Paolo (Vincent Perez), un uomo intelligente ma egoista ed infantile, a cui piace solo divertirsi, vivendo senza prendersi alcuna responsabilità e ripiegando psicologicamente in un mondo più sognato che reale, sempre spensierato.
I due si innamorano, si sposano e insieme decidono di andare a vivere in Africa, nel Kenya, un viaggio e una permanenza a lungo desiderate, perché il continente nero è da loro ritenuto un luogo ideale per una vita ricca di emozioni forti, ambigue, inconsciamente legate a quelle pulsioni di morte che a volte si annidano subdole nel rischio troppo ricercato.
Nella pianura di Laipikia, in Kenia, la coppia compra un ranch fatiscente, situato nella sabbia, aperto in ogni direzione, senza confini, del tutto privo di protezioni, soggetto all'attacco di serpenti velenosi, elefanti, leoni molto aggressivi, rinoceronti di notevoli dimensioni.
La donna, a causa dell'assenza prolungata del marito Paolo che all'affettuosa compagnia della moglie preferisce la caccia grossa, affronta efficacemente, da sola, i pericoli quotidiani del continente nero riuscendo a trovare anche il tempo per impegnarsi in una seria battaglia contro i feroci bracconieri della zona.
L'ambiente in cui vivono Paolo, Kuki e Emanuele è molto diverso dall'Occidente: la cultura degli indigeni non è di facile comprensione, né di immediata e reciproca accettazione e il clima africano è imprevedibile, con le sue improvvise tempeste di sabbia e le devastanti piogge; inoltre i tempi della giornata non ammettono pause di lavoro, pena un ritardo irrecuperabile in tutte le mansioni del ranch.
Emanuele va a scuola in città, la mamma di Kuki, Franca (Eva Marie Saint), qualche volta viene a trovarla, ma ha idee diverse dalla figlia, teme per la sua vita e per quella del nipote, cerca perciò di dissuaderla dal rimanere nel Kenya.
Kuki, però, con un coraggio che sembra non avere limiti, rimane indifferente al preoccupato richiamo della madre e prosegue ostinatamente la sua avventurosa esperienza dando alla luce una bella figlia di nome Sveva.
Riuscirà Kuki a rimanere in Kenya, nonostante le delusioni e lo stress per le nuove e numerose disavventure che piomberanno nella sua famiglia?
Storia vera quella del personaggio Kuki che si ispira proprio al libro autobiografico della Kuki Gallmann, di cui il regista Hugh Hudson segue con una certa fedeltà le vicende.
La donna rimarrà sempre una fervente nemica dei bracconieri e, oltre a diventare un'ottima scrittrice, fonderà anche una associazione per la difesa in Africa dell'armonia tra vita animale e ambiente.
Questo film dell'inglese Hugh Hudson, noto per "Devolution" (1985), "Momenti di gloria" (1981), "Lost Angels" (1989), è stato ingiustamente stroncato a Cannes perché privo di una composita, ben intrecciata linea narrativa e di una più elaborata, da un punto di vista letterario, descrizione dei personaggi, che sono lasciati, secondo i critici, poco caratterizzati soprattutto nelle situazioni narrative di maggior tensione.
In realtà il film, pur avendo qualche grave difetto (come la stesura zoppicante di quella parte della sceneggiatura che riguarda l'eloquio, indubbiamente un po' scarna), funziona a meraviglia sul piano fotografico, riuscendo a descrivere per immagini, sempre in modo raffinato, la realtà africana.
La magistrale fotografia fa pulsare ciò che più coinvolge del continente nero: un altrove immaginifico stupefacente, tutto da esplorare, che brilla di effetti reali. Una fotografia insomma che, in virtù di una composizione accuratissima, ricca di nitidissime profondità di campo, ha la rara caratteristica di distinguersi per le sue instancabili variazioni d'oggetto, sempre ben legate fra di loro, disposte in una forma associativa raffinata, in grado di funzionare da sintassi visiva, capace cioè di diventare molto loquace per immagini.
La stessa cosa, ad esempio, non si è avuta con il film più simile a questo, che invece è piaciuto molto ai critici e al pubblico, quale "La mia Africa" di Pollak (1985) con protagonista Meryl Streep, in cui la riuscita letteraria della sceneggiatura, ben drammatizzata e realizzata nella pratica narrativa in modo eccellente, acquisisce a un certo punto un difetto: diventa troppo protagonista delle scene tanto da mettere in secondo piano la fotografia più di atmosfera e di accompagnamento, relegando cioè le scene chiave a un immobilismo espressivo un po' tipico del teatro.
Con il film "La mia Africa", a differenza del film di Hudson, è stata quindi oggettivamente impedita al pubblico la possibilità di godere dell'estetica più fotografica del film perché si è fatta la scelta di dare alla narrazione un ritmo esclusivamente romanzesco.
In questo film di Hudson, come in "2001 Odissea nello spazio", capolavoro fotografico di Kubrick, il godimento per l'immagine non è disturbato dal peso delle relazioni umane dei personaggi. Questo aspetto è molto importante perché dà più libertà di immaginare al pubblico, incuriosendolo meglio, consentendogli di rappresentare le cose secondo un proprio modo di sentire.
Dunque, da un punto di vista strettamente legato allo specifico dell'arte cinematografica, che riguarda l'immagine in movimento e le inquadrature fisse di grande profondità prospettica, è da considerare senz'altro più filmico "Sognando l'Africa" che "La mia Africa", nonostante le grandissime differenze di consensi di pubblico e di critica a favore della pellicola di Pollak prodotta nel 2000.
"Sognando l'Africa" è stato maltrattato ignominiosamente da critici illustri e bocciato dal pubblico più nevrotico, quello degli ultimi vent'anni, privo di una certa sensibilità estetica al visivo più diretto (vedi Kurosawa) e ciò fa capire come oggi sia sempre più necessaria e urgente una nuova proposta formativa sul gusto, attuata ad esempio dai nuovi media, per favorire l'acquisizione di una maggiore sensibilità fotografica filmica, troppo spesso intesa dal pubblico conformista e da una certa critica come un mezzo di scrittura artistica minore, di facile realizzazione, secondaria rispetto alla costruzione narrativa e all'intreccio letterario, e quindi poco degna di attenzioni.
Sappiamo invece, attraverso i grandi registi come Kubrick e Orson Welles, come essa rappresenti spesso la parte più bella e creativa del film, quella che non si può meditare prima e memorizzare dopo per usarla comodamente all'istante del ciak su indicazione scritte, come avviene con la sceneggiatura, perché essa è una parte linguistica che è legata creativamente all'ispirazione artistica del momento, quell'ispirazione che può nascere ma anche assopirsi nei luoghi in cui si gira il film ritardando il lavoro di completamento della pellicola.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 09/12/2010 15.30.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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