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A stroncare film di registi italiani esordienti occorre mettersi una mano sulla coscienza. Tuttavia quando un film è indifendibile sotto quasi ogni aspetto, tocca l'ingrato compito.
Fare il contrario, usare anche in sede critica la vellutata diplomazia da conferenza stampa, è solo apparentemente fare un favore al cinema italiano. Certo, si è coscienti di togliere pubblico a quella già esangue fetta di pubblico cui l'opera potrebbe interessare. Tuttavia, a mancare di obiettività, si farebbe, oltre che un torto al pubblico (quello che il film lo andrebbe a vedere), del male al cinema.
"Chiudere un occhio" è un atto di condiscendenza da cui discenderebbero la svalutazione di ciò che merita veramente, la penalizzazione del cinema italiano buono, e persino un torto al folto novero di autori che ancora non ce l'hanno fatta a realizzare il loro film, o a vedere distribuito quello che hanno girato.
La tenerezza di certa critica italiana nei confronti del cinema di casa nostra non è esente da responsabilità nei mali di cui il cinema italiano soffre.
"Sono viva" dei fratelli Gentili ha subito traversie purtroppo comuni. Esce oggi, faticosamente, dopo molto tempo. Inoltre è passato attraverso un finanziamento pubblico, prima concesso, poi negato, infine accordato in sede giudiziaria.
Diciamolo subito, a scanso di equivoci: lo (scarso) sostegno pubblico al cinema ci auguriamo non venga penalizzato ulteriormente. Anche nel caso in cui il valore del film possa apparire scarso, secondo parametri critici che rimangono comunque del tutto soggettivi.
Se è vero che il risultato finale, specie nel caso di autori esordienti, non è possibile conoscerlo a priori (e meno che mai dev'essere immaginato pregiudizialmente), è tuttavia vero che qualcosa non torna, se i difetti dei prodotti che ricevono finanziamenti sono tali da implicare carenze professionali basilari, che emergono in lacune tecniche elementari di chi il film lo deve dirigere – e non dello staff tecnico che anzi fa il suo lavoro con la massima professionalità. Mancano i maestri bravi?
La trama del film "Sono viva" si sviluppa intorno a un cadavere: quello di Silvia, una ragazza morta in circostanze non chiare. Il protagonista Rocco (interpretato da Massimo De Santis, discreto) si trova – su incarico del padre di lei, loschissimo figuro – a doverla vegliare per una notte, in cambio di denaro, senza poter chiedere cosa ci sia dietro. Durante quella notte, il mistero sulle circostanze della morte di Silvia si infittirà, e Rocco ne vedrà più di quante si sarebbe immaginato, in un crescendo di situazioni pericolose: si presenta Adriano, il fratello di Silvia, in compagnia di una combriccola di sbandati; il "socio" che ha proposto l'"affare" a Rocco si defila in compagnia di una ragazza; quindi compare un ragazzo rumeno che forse aveva una relazione con Silvia, ed è armato. Perché quella strana, grottesca veglia? E soprattutto: come è morta Silvia?
Il film "Sono viva" conferma l'ipotesi di chi sostiene come il problema maggiore del cinema italiano odierno siano gli sceneggiatori.
Abbiamo ottimi tecnici. Abbiamo molti attori bravi e spesso eccellenti. I quali però magari si trovano a mettere in scena un plot improbabile recitando dialoghi implausibili.
I fratelli Dino e Filippo Gentili (classe 1965 e 1964), oltre che registi, sono anche autori del soggetto e della sceneggiatura. Provengono da una lunga esperienza come sceneggiatori: specialmente nel mondo della televisione, hanno anche collaborato ad alcune pellicole di Roberto Faenza, mentre Dino Gentili da solo aveva partecipato nel 2004 alla sceneggiatura di "Saimir", l'interessante esordio di Francesco Munzi.
Certe ambientazioni cupe, oscure e marginali; la contiguità tra losca malavita e un'alta borghesia descritta come marcia, malata (in uno stereotipo decadente a dire il vero abusatissimo); la presenza di almeno un personaggio immigrato dall'est (rumeno o albanese): sono tutti elementi che apparentano "Sono viva" ai due lungometraggi di Munzi ("Saimir" e "Il resto della notte").
Il plot notturno del film (in cui un ragazzo "perbene" si trova coinvolto in cose sporche) fa venire in mente poi l'eccellente "Mio cognato" (2002) di Alessandro Piva – film di ben altro spessore e levatura, sia nell'estetica sia nella pregnanza della storia: al confronto, un capolavoro superbo.
Non si può chiedere ai registi di esordire maturi. Tuttavia occorre registrare il fatto che i fratelli Gentili ricalcano, con "Sono viva", il limite tipico esibito dagli sceneggiatori quando approdano alla macchina da presa. Anche quando fanno film pregevoli (vedi il caso di Paul Haggis), le loro opere portano impresse l'impostazione dello scrittore più che del cineasta. La pregnanza dello sguardo appare inevitabilmente secondaria. Il linguaggio che parla l'opera sembra quello di uno sceneggiato, messo in scena senza che si percepisca una reale urgenza visiva.
Tale mancanza di estetica autoriale matura è assolutamente perdonabile: a riguardo anzi occorre essere davvero molto indulgenti con degli esordienti. I difetti del film stanno altrove. Quello principale consiste in una palese carenza di senso della messa in scena, sulla base per di più di una sceneggiatura già viziata da molti difetti.
I problemi – clamorosi – della messa in scena, si traducono in una direzione degli attori stentatissima. Già le battute non sono il massimo (a volte improponibili): in più, vengono pronunciate spesso male. Sono sbagliati i tempi: il più delle volte arrivano in anticipo, con una premura irrealistica e immotivata. Sembrano anche recitate a memoria, anziché scaturire dai gesti, dagli sguardi, dall'interazione fra i personaggi, con naturalezza.
Il film risente pesantemente di questa messa in scena goffa, e – chiedendosi dove sia il problema – si ipotizza che i registi, anche nel visionare i "giornalieri", non abbiano saputo mantenere uno sguardo obiettivo sul materiale girato, in una mancanza di distacco rispetto all'esperienza vissuta sul set durante le riprese.
Ne segue un dubbio: è giusto lasciare totale libertà agli esordienti? Senza penalizzarne il talento espressivo, essi potrebbero essere coadiuvati, da chi ha acquisito l'esperienza e il mestiere, in un'operazione tanto delicata quale la realizzazione di un'opera prima.
Veniamo ai difetti della sceneggiatura.
Primo di essi: i personaggi sono bidimensionali, squadrati, privi di profondità. Non vivono di sfumature, le loro psicologie sono delineate grossolanamente. Sono macchiette o al più personaggi di un fumetto seriale, prima che esseri vivi e vitali. In questo senso coglie davvero nel segno Giovanna Mezzogiorno (che, cugina dei registi, recita amichevolmente un piccolo ruolo), quando afferma di pensare a questo film come a un fumetto di Dylan Dog.
Il padre di Silvia, la ragazza morta (interpretato da Giorgio Colangeli in una prova peraltro convincente) è un essere inquietante, viscido e squallido, condannato dalle sue parti di dialogo a restare sullo sfondo come presenza incombente e priva di spessore.
Il fratello di Silvia (interpretato da Guido Caprino) assume su di sé lo stereotipo del "figlio di papà viziato", bello, imbelle e drogato.
"Frequenta giri strani", dice di lui il personaggio interpretato dalla Mezzogiorno: e tanto basta a definirlo.
Del tutto incredibile, per inciso, che il padre, nel finale, comunichi al figlio la decisione di lasciargli in mano dall'oggi al domani tutto il suo impero imprenditoriale e finanziario (solo perché, in un empito di rimorso per la morte della figlia, avrebbe deciso di prendersi cura "ventiquattr'ore al giorno" del nipotino neonato, nato da una relazione tra la figlia e il giardiniere rumeno (sic!).
Quantomeno il protagonista una sua evoluzione la vive, che è poi l'unico motore della storia – la quale altrimenti si ridurrebbe a un improbabile accumularsi di eventi ambigui e circostanze sfortunate. Rocco è un ragazzo mite, vittima del precariato, che per guadagnare facilmente mille euro, si lascia invischiare in quella che ha tutta l'aria di essere una brutta storia. Ne rimane fuori, ne esce pulito, dimostrando di essere l'unico ad avere la sensibilità di portare rispetto ad una morta, rispettando le sue "ultime volontà" (quanto appare posticcio però, e imbarazzante, quel finale sui monti con una sepoltura clandestina, che si confà piuttosto ai cliché del cinema gangster!).
Quella del protagonista, in fondo, è una semplice scelta di umanità: e ad essa è lasciato poco spazio, in tutto quell'affastellarsi di eventi, nel continuo entrare e uscire di scena di personaggi bizzarri in situazioni sempre più grottesche.
Tanto più le situazioni si accumulano, tanto più le forzature di sceneggiatura diventano macroscopiche. Come ad esempio le dinamiche – pistola alla mano – che si innescano a partire dal momento in cui entra in scena il rumeno Vlad (in un affastellarsi di topos del noir che sfociano davvero in un grottesco involontario). O come l'improvvisa ricomparsa del fratello di Silvia, che torna in scena allo scoccare dell'ora esatta, perfettamente in forma, poche ore dopo essere stato portato in ospedale in overdose (con una scusa inverosimile da parte del protagonista di fronte ai carabinieri).
Potremmo continuare, ma ci fermiamo qui.
Prescindendo sia dai difetti di una sceneggiatura inverosimile, sia dalla mediocre direzione degli attori, il film, nel suo complesso, soffre di un'annosa tara dei registi italiani esordienti. Vittime di una sorta di "complesso dell'autore", ardiscono una commistione fra gli stilemi del genere – in questo caso il thriller (che nemmeno padroneggiano, causa una carente scuola nazionale) – e ambizioni autoriali. E così, per salvare il film, risalendo alle intenzioni a monte, si ricorre all'espressione "thriller dell'anima". Fingendo di non sapere che un buon prodotto commerciale riesce molto meglio quando è scevro da ambizioni "alte" malriposte ( "L'imbalsamatore" è un esempio pericoloso se, nell'ammirazione, si vuole imitare la strada di un Garrone).
Di "Sono viva" va detto, specificamente, che soffre di un'irrisolta ambiguità tra situazioni plumbee, ai limiti del fumetto, e atmosfere che vorrebbero a tratti darci dentro con l'introspezione: sospese, rarefatte, rallentano il ritmo senza riuscire da sole ad imprimere al film un approfondimento delle tematiche sfiorate, né una riflessione o un'emozione forte nello spettatore.
Si salvano – e va detto – le bellissime musiche di Giovanni Venosta.
Da sole, esse riescono a inventare atmosfere intense, introspettive e perturbanti, laddove queste atmosfere, dalle immagini, non sono nemmeno suggerite. Al punto che viene da pensare all'autore delle musiche come un eroe sfortunato, alle prese con un montato che non lo favoriva. Ma questo è indizio, o suggestione, ulteriore, di come il cinema italiano sia dotato di ottime professionalità non semplicemente tecniche, ma anche artistiche (musicisti, attori), purtroppo troppo spesso penalizzate da autori non all'altezza delle loro ambizioni e delle loro responsabilità.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 07/06/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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