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Zack Snyder tenta il grande passo: da adattatore spregiudicato (prevalentemente di graphic novel di culto), ad autore e realizzatore di un soggetto originale. Più che un grande passo è un grande tonfo.
In breve la vicenda. Siamo negli anni '50. Morta la madre, Baby Doll viene reclusa in un ospedale psichiatrico dal patrigno (che vuole impossessarsi dell'eredità). Lì ,Baby Doll sarà sottoposta presto a una lobotomia. La ragazza si rifugia allora con la fantasia in due livelli di realtà alternativa. Di lì, inizia a pianificare la propria fuga insieme alle compagne di detenzione. Per riuscirvi, ha bisogno di impossessarsi di quattro oggetti: una mappa, un accendino, un coltello e una chiave.
Di scatole cinesi e videogiochi
"Sucker Punch" ha due momenti interessanti. L'incipit e il finale.
Sull'incipit, non ci sono particolari dubbi: è pregevole cinema. Come accadeva in "Watchmen" (2008), Snyder indovina una sequenza composta quasi esclusivamente di ralenti, in cui fornisce lo spunto da cui parte la vicenda. Questa sequenza dark, per quanto infarcita di stereotipi (la violenza del patrigno, la pioggia battente, i toni cupi), è allestita egregiamente. Tutta tesa a creare un'immedesimazione immediata, centra l'obiettivo.
Più problematico sostenere la validità del finale. A noi non è spiaciuto. Fatte alcune debite considerazioni. Anzitutto, malgrado l'intensità della situazione (adrenalinica e mai davvero emotiva), Snyder non riesce neppure per un istante a calarci sul serio nel suo mondo: né la sua protagonista ha, sia pur velate sfumature psicologiche, né l'ambiente che la circonda appare verosimile.
Tuttavia lo sviluppo delle sequenze finali è indiscutibilmente cinema. Sì: ricorda due recenti "blockbuster d'autore" come "Shutter Island" di Martin Scorsese (2010) e "Inception" di Christopher Nolan (2010). Ma non ci interessa parlare di debiti a riguardo: i tre film sono stati realizzati quasi in contemporanea (soprattutto "Inception" era in produzione negli stessi mesi: e si tratta, fra questi, del film nei cui confronti "Sucker Punch" ha punti di contatto più appariscenti).
Ci interessa piuttosto sottolineare come al cinema negli ultimi tempi si insista sul tema della fuga dalla realtà, con la messa in scena di mondi alternativi e virtuali che nascono nella mente dei personaggi. A prescindere dall'esito delle singole opere, si tratta di un segno dei tempi degno di nota.
Dunque il film inizia bene, e si risolleva nel finale. Il problema è quanto sta nel mezzo.
"Sucker Punch" mette in scena un primo livello narrativo, che appartiene alla realtà, e poi un secondo e un terzo livello, che appartengono invece all'immaginazione della sua protagonista. Come in "Inception" di Nolan, Snyder ha in riserbo per il finale alcuni colpi di scena riguardo ai due livelli narrativi sub-reali.
Il cinema di Nolan ha dei limiti (da un lato è appesantito da un eccesso di cerebralismo, dall'altro scende a un ruvido compromesso con le logiche del blockbuster commerciale, infarcendo i film di scene d'azione non indispensabili), tenuto conto dei quali, occorre riconoscere che Nolan è un autore di razza, che fa ottimo cinema, spesso sottovalutato dai più esigenti. Ammesso che "Inception" sia in parte debitore verso la struttura narrativa dei videogiochi, Nolan se ne appropria per farne qualcosa di diverso: la immette in una dimensione squisitamente cinematografica e riesce persino a trarne una riflessione metalinguistica.
Ricordate la sequenza di "Inception" in cui il protagonista Cobb, a Mombasa durante un inseguimento, si trova, come in un sogno, stretto in un vicolo sempre più angusto, da cui riesce ad uscire per trovarsi di fronte, in modo del tutto inverosimile, Saito che lo fa salire in macchina e lo porta via? Questa sequenza è la "scatola blu" di "Inception". Si può ricostruire tutto il film, scindere ciò che appartiene al reale e ciò che appartiene alla dimensione onirica: ma l'evidente, esplicita appartenenza alla dimensione onirica di questa sequenza – che si situa sul piano della realtà – fa saltare ogni categoria, e presenta tutto il film come una programmatica "mise en abyme", per la quale non può essere proposta una soluzione univoca.
Nulla del genere in Snyder. Il finale di "Sucker Punch" si preoccupa di chiarire, con un colpo di scena, la grande incongruenza che rimaneva indigesta: ovvero come potesse un ospedale psichiatrico essere un bordello.
Per quanto attiene invece al secondo livello alternativo alla realtà, esso sin da subito si presenta come tale, con uno stacco netto talmente spiazzante da non lasciare dubbi. Dunque abbiamo:
- un lugubre ospedale psichiatrico;
- un bordello d'antan popolato da personaggi eccentrici;
- alcune "location" fantastiche, prese in prestito da quattro ambiti del cinema d'azione (l'estremo oriente con katane e samurai, i film di guerra con trincee e nazisti, il fantasy con draghi sputafuoco, infine una metropoli fantascientifica), ciascuna delle quali dedicata al rinvenimento di un oggetto (la mappa: il film di guerra; l'accendino: il drago sputa fuoco; ecc.). Qui l'azione si tramuta in quella di un puro videogioco.
Ogni volta che Baby Doll si mette a danzare, un carrello circolare con asse sul suo primo piano ci trasporta nell'universo parallelo evocato dalla sua immaginazione. Mentre noi assistiamo a un tripudio orgiastico (e ben poco originale) di prestiti da un immaginario collettivo banalizzato all'estremo, gli spettatori della danza di Baby Doll assistono a qualcosa di mirabile. Peccato che, al posto di tutto quello che Snyder ci propone, avremmo voluto vedere anche noi quali diavolerie combina Baby Doll ballando, per ammaliare tutti a quel modo! Purtroppo, Snyder ci nega la soddisfazione di questa curiosità, la maggiore che suscita con il suo film.
Il primo vizio di "Sucker Punch" è non preoccuparsi minimamente della totale incongruità dei tre livelli narrativi. Essi sono talmente scollati fra loro da apparire come parti non comunicanti di un insieme retto solo dal montaggio.
Le tre dimensioni sono poi in squilibrio in modo inversamente proporzionale alla loro validità narrativa ed estetica. Laddove a parer nostro la "realtà" del manicomio ha una sua decenza, questa dimensione è sacrificata, essendo limitata al prologo e all'epilogo. La parte "intermedia" (il bordello) intrattiene ancora un rapporto onesto con il mezzo cinematografico: è poco credibile?, mal recitata?, stereotipata? Le ragazze sono tutte troppo appariscenti, vestite in modo provocante (all'unico scopo di stuzzicare la libidine degli spettatori maschietti)? Importa relativamente poco fin qui, "Sucker punch" resta ancora un film (purtroppo, ridotto a far da sipario fra le diverse sezioni "fantastiche"). Le "location" videoludiche invadono però con prepotenza la maggior parte del tempo filmico.
A rendere il pasto indigesto, il metabolismo impossibile, non è il fatto che le varie "location" fantastiche siano incongruenti con il resto della pellicola. Non è neanche la loro inverosimiglianza nella mente di una ragazza degli anni '50. E non è neppure il loro aspetto, grossolanamente preso in prestito da disparati contesti di genere.
Il vizio più grave – quello dove si ravvisa il dolo nei confronti del Cinema – consiste nel fatto che nessuna delle relative sezioni possiede uno sviluppo narrativo sia pur inverosimile. C'è solo l'eroina con alcune compagne al seguito, che si muove nelle tre dimensioni dello spazio affrontando avversari pronti a ucciderla, e trionfa su ciascuno di essi procedendo meccanicamente.
Questa è la struttura di un videogioco, non l'architettura di una qualsiasi opera narrativa di finzione (non importa quale sia l'estetica di riferimento).
Come non imputeremmo mai al cinema di genere i suoi codici, così non imputiamo al cinema di Snyder – che pretenderebbe un'etichetta di autorialità – di avvalersi delle più svariate fonti di genere, frullandole tra loro secondo una matrice post-moderna prossima al cinema di Tarantino.
Quel che non ci sta bene è che (nel medesimo segmento "narrativo"): a) le rovine di una cattedrale gotica e di una città che potrebbe essere Dresda o Berlino nella seconda guerra mondiale, b) trincee della prima guerra mondiale (uscite da "L'esercito delle dodici scimmie" di Gilliam o da "Una lunga domenica di passioni" di Jeunet?), c) soldati tedeschi zombie (o robot con gli occhi di brace), d) una capsula spaziale dalla foggia mostruosa… non ci sta bene, dicevamo, che tutto questo sia mero scenario di un'azione priva di una progressione narrativa diversa da quella di un personaggio-eroe che si muove verso una meta, e sulla cui strada si interpongono avversari da eliminare fisicamente.
E' evidente che siamo intrappolati dentro un videogioco: non siamo più al cinema, ogni legame con l'opera cinematografica è spezzato. Qui il cinema stesso ha rinunciato, suicida, alla propria forma minima: un racconto che abbia un capo e una coda. Non importa quanto impegnato o disimpegnato, riuscito o meno, credibile o no: ci accontenteremmo di un racconto.
Di prestiti e specchietti per le allodole: ovvero, del feticismo post-moderno
Per la colonna sonora Snyder ha messo insieme remix di brani uno più celebre dell'altro. Tutti molto belli. Forse taluni arrangiamenti son discutibili, ma non vogliamo esser severi: quale semi-continuum di videoclip, "Sucker Punch" è una godibile esperienza sonora. Si tratta però di un "saccheggio" la cui spudoratezza è significativa.
Non c'è omogeneità di stile: Snyder sceglie le fonti più disparate. L'intenzione è ambire a un approssimativo compendio della musica popolare degli ultimi cinquant'anni, che risulti riconoscibile alla più larga fetta di pubblico possibile.
Si va dai Beatles ("Tomorrow never knows") a Björk ("Army of me"): passando per gli anni '60 dei Jefferson Airplane ("White Rabbit"), gli anni '70 di Iggy Pop ("Search and destroy") e dei Roxy Music ("Love is the drug"), gli anni '80 del rock da stadio dei Queen (medley "We will rock you/I want it all") e della new wave di Eurythmics ("Sweet dreams (are made of this)" e Pixies ("Where is my mind?"). Chiude un pezzo fuori dal coro, una malinconica ballad firmata Smiths ("Asleep"): il brano più ricercato della compilation. Peccato siano remix, e che i brani non siano eseguiti dagli interpreti originali (tranne "Army of me" interpretata da Björk, e alcuni sample dei Queen contenuti in una curiosa versione hip hop di due loro hit). Molti, addirittura, sono affidati agli interpreti del film – che sono attori e non cantanti – come Emily Browning (che recita il ruolo della protagonista Baby Doll e interpreta ben tre brani), o Carla Gugino e Oscar Isaac (interpreti rispettivamente della tenutaria del bordello e del suo proprietario).
Occorre dire d'altra parte che queste interpretazioni, se in taluni casi perdono qualcosa (ad eccezione di "Search and destroy" interpretata da Skin, e di "White rabbit" che, affidata a Emiliana Torrini, non sfigura affatto – e sì che il confronto con Grace Slick dei Jefferson Airplane era impegnativo!), sono amalgamate alla veste e al ritmo forsennato del film (o viceversa, al ralenti della sequenza d'apertura: ed è il caso di "Sweet dreams (are made of it)", rallentata in modo funzionale, cantata da Emily Browning).
Come è evidente, si tratta sempre del brano più celebre – o di uno dei maggiori successi commerciali – dell'artista prescelto, già di per sé famosissimo (fanno eccezione solo "Asleep" degli Smiths e "Tomorrow never knows" dei Beatles, scelte entrambe coraggiose – non a caso le più originali).
Le varie epoche sono coperte si direbbe scientificamente, con la significativa eccezione degli ultimi 15 anni ("Army of me di Björk, del 1995, è il brano più recente).
Snyder non solo non si fa nessuno scrupolo (quando mai Snyder se ne fa?!), ma nemmeno si preoccupa di impreziosire il film con una colonna sonora caratterizzata e in sé memorabile. Si premura unicamente di sollevare di volta in volta la meraviglia dello spettatore, colpito da musiche riconoscibili, decontestualizzate rispetto a quello che lo schermo propone in termini visivi. In questo senso, Snyder ripete la scelta di "Watchmen", in cui un florilegio musicale, anche più clamoroso di questo, era dedicato a sottolineare in modo spiazzante momenti che spesso non avevano proprio nulla a che spartire con il brano prescelto: esemplare "Halleluja" di Leonard Cohen sulla scena di sesso fra due eroi mascherati. Ma almeno lì l'esercizio era talmente fuori dalla righe che si salvava per eccesso. Qui è come svilito dal generico asservimento alle scene videoludiche.
Una siffatta colonna sonora si rapporta al film principalmente per contrasto. Come ogni scelta compiuta da Snyder, cerca l'impatto immediato: non si propone di aggiungere espressività alle scene, ma si limita a solleticare, compiacere l'orecchio dello spettatore, che si sente esaltato dal riconoscere i brani.
Il cinema popolare contemporaneo si nutre impudicamente dell'immaginario della cultura di massa: prende in prestito e cita instancabilmente, in un continuo rimando ad altro.
Anche citare può essere un'arte: ma perché lo sia occorre metodo. E la prima regola è: rafforzare l'espressività, contribuire al senso. La citazione ha valore se rafforza una poetica, formula un'estetica. Fine a se stessa, è mera masturbazione.
Tarantino sa citare bene come pochi: la sua è una prassi esasperata che, sì, stuzzica il cinefilo ("prova a riconoscere cosa sto citando…", sembra dire), ma compone dei "puzzle" i quali possiedono un'omogeneità interna fortemente connotata e originale. Un film di Tarantino ha proprie coordinate talmente precise da costituire uno stile riconoscibile (e inimitabile). Ecco: l'abilità di Tarantino consiste nel creare qualcosa di veramente mai visto prima, a partire da materiali già visti. Non si limita mai a una vaga citazione dei generi cinematografici: cita film, singole scene, precisi dettagli e personaggi. E' una prassi condotta con metodo quasi scientifico. Se è un delirio, quello di Tarantino, è un delirio metodico. Questo di Snyder invece cos'è? "Sucker Punch" sembra l'esibizione di un delirio privo di metodo.
Proprio la composizione della colonna sonora sta a dimostrarlo. Si pensi a quella, memorabile di "Pulp fiction": chi, senza aver mai visto e amato quel film, potrebbe facilmente riconoscere nomi come Dick Dale and his Deltones, Kool & the Gang, Urge Overkill, The Revels, ecc.? E' evidente come le scelte di Tarantino, finalizzate a rendere i brani espressivi in funzione delle singole scene, fossero frutto di una ricercatezza che Snyder non si sogna nemmeno.
La popolarità e la caratura artistica di "Pulp fiction" non cesseranno di contribuire a rendere memorabili quei brani. I brani della colonna sonora di "Sucker Punch", viceversa, continueranno a esser celebri di loro. Dell'uso fattone da Snyder invece ci si dimenticherà presto.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 30/03/2011 11.44.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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