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Fra le nubi dei tombini, cresce il respiro di un sassofono alto, con il suo pianto ondoso... non un ottone ma un'estensione viva, una creatura dolente da consolare. "Taxi Driver" è come la sua musica: suadente fino a cavarti lacrime dal cuore, dentro di te fino a raggiungere una malinconia che non sapevi di provare, ma che era lì, come il ricordo di un attimo sottovalutato.
Una melodia struggente, mai stucchevole, che con grossi singhiozzi di suono, canta il fruscio delle strade bagnate, lo stridore intermittente del tergicristallo, gli sbuffi fumosi dalle grate, le vie imperlate di lampioni riflessi, il riverbero rosso su due occhi che vagano dietro un parabrezza.
Travis Bickle è un uomo che si porta dentro la solitudine come una custodia il suo strumento, non ha sonno e guida il taxi per spinger via la notte di New York.
Una New York ben diversa dalla metropoli sontuosa di Allen, o quella brutalizzata di Spike Lee, ma disperata e distratta, come una battona stanca, vestita solo del proprio trucco pesante. Una città di nebbia e vapore, in cui le luci al neon dormono nel fondo delle pozzanghere, totalmente deformata dalla visione smarrita di Travis.
Travis vaga per le avenue, le guarda farsi viscide di pioggia, accompagna i clienti in ogni quartiere, in ogni angolo buio. Arriva a destinazione, ma si sente perduto; perduto non solo nella città, ma soprattutto dentro di se. Le sue notti immutabili sono scandite dallo scorrere dei semafori, che pendono come luminosi decori natalizi.
Non conosciamo molto del passato di questo ragazzo, non sappiamo quali spettri l'abbiano seguito dal Vietnam, ci dice da subito di non avere un educazione scolastica, ma capiamo che ciò che gli manca è soprattutto un'educazione sociale. Travis Bickle è un guscio di incomunicabilità, non ha che un taccuino con cui confidarsi; ciò che scrive non è nulla di filosofico, solo piccole notazioni sul quotidiano, pensieri sciolti nel silenzio abitato della sua squallida stanza.
Il taxi scivola nel traffico, nei lunghi torrenti di catrame, sudato di pioggia, in un concerto di ruote. Osserva la folla che popola i bassifondi: le puttane che temporeggiano sulle zeppe, i mendicanti come striscianti fantasmi, chi è in caccia di una preda fra le luci sfacciate dei diner, gli artisti da marciapiede impomatati, i negri che sbraitano. Come un novello flaneur, Travis si consegna al movimento guidando il taxi, si affida alla vita delle strade, riducendosi ad un occhio che vede, forse per raggiungere il sollievo di un vuoto interiore.
Parla poco e parrebbe sempre assente, ma la sua mente filtra ogni attimo che sia denso o leggero, friabile o roccioso. Inizialmente crede di poter accettare la tenera indifferenza del mondo, si illude di potersi "avvicinare alle persone", di poter raggiungere Betsy: una dea bionda, icona algida e intoccabile, distante da ogni lordura.
Travis la vede apparire fra la folla senza volto, il suo sguardo l'accarezza piano, la segue, la mitizza. Per un breve, miracoloso e perfetto pomeriggio, la raggiunge e seduce; per un attimo, un attimo appena Travis parrebbe un piccolo gioiello di contraddizione, sospeso fra realtà e finzione, come in una canzone da innamorati. Ma la sua contraddittorietà è ben più profonda di quanto possa essere utile ad affascinare le belle ragazze, ed al loro primo appuntamento pur volendo conquistare Betsy non può evitare di disgustarla. La sua ignoranza affettiva lo porta a scioccarla, conducendola in un cinema a luci rosse. Lei è schifata e offesa, con tutta l'impietosità delle terribili vergini americane, gli nega ogni possibilità di riscatto.
Dopo il rifiuto di Betsy la misoginia di Travis, dapprima una piccola dissonanza, si fa sempre più stonata. Non vi sono angeli in questo inferno, lei è come tutte le altre: fredda e distante. Non gli resta che ripiombare nel suo personale girone dei dannati.
Tutto l'assurdo di un'umanità fallibile continua a passare dal taxi di Travis, che guarda e giudica con sempre maggiore disgusto questi scorci di urbana decadenza. La città gli vive addosso, gli si insinua nelle narici coi suoi miasmi, gli dà il mal di testa. L'esclusione da qualunque rapporto affettivo gli danza innanzi, ogni cosa... dai marciapiedi, dai bar, dai cinema porno, da dietro la grata delle proprie dita, non fa che gridargli in faccia la propria inadeguatezza.
Travis sta al volante e tace, ma qualcosa nella sua testa urla e la freddezza che emana dal suo sguardo impregna lo schermo di un malessere palpabile. Il suo dialogo interiore diviene sempre più ossessivo e malato, persino la pellicola si riavvolge su se stessa di scatto, a sottolineare la dissociazione dei suoi pensieri, la sua instabilità che monta... Travis alla deriva, affoga nell'effervescenza di un'aspirina, naufraga nel breve tragitto fra il letto e lo specchio.
Per esorcizzare la vacuità della propria vita, esce dal quietismo della disperazione: un uomo che ha deciso di opporsi a ogni degrado e corruzione, con violenza autodistruttiva e implacabile.
Tutto gli è alieno, ha bisogno di una pistola, un granchio freddo che gli si aggrappi alla carne, per cercare la gloria che fu di Erostrato.
Infatti per chi è un estraneo, perché tutto sia consumato, l'unico contatto possibile è venire accolti da grida di odio.
Il suo silenzio diventa visibile, come catturato nel tempo, quanto più a lungo dura tanto più forte sarà la deflagrazione finale. Dal silenzio al frastuono del metallo.
Travis arriva a pensare ad un gesto estremo, che lo porti a brillare come un diamante nero: sparare fra la folla per uccidere il candidato presidente, alla cui campagna elettorale lavora Betsy. Questo damerino di buona famiglia, dal linguaggio populista e le promesse demagogiche è l'emblema di tutto ciò che gli sarà sempre negato: incarna il rifiuto di Betsy e dell'intera classe sociale a cui appartiene. Ma l'attentato fallisce. Travis quindi volge il suo odio (o forse solo la sua frustrazione) verso il basso, alla parte marcia della città alla quale è irrimediabilmente consapevole di appartenere, cercando un percorso salvifico di catarsi e riscatto. Un angelo sterminatore che impone la sua insana redenzione.
In una notte pesante come il dolore umano, Travis spara al protettore di Iris, spara a un suo cliente, spara al proprietario dell'immobile in cui si trovano, Travis spara... alla sua nausea, al suo disgusto, alla sua rabbia, alla sua disperazione, al suo senso di inadeguatezza, fino a portare la pistola alla propria gola e ritrovarla ormai senza pallottole. Per un appuntamento mancato con il proprio desiderio di morte è costretto a vivere, a divenire un eroe della società malata di cui non voleva far parte.
Martin Scorsese, ancora pieno della rabbia che alimentò il cortometraggio "The Big Shave" (1967), lesse la sceneggiatura di Paul Schrader e in lui nacque la necessità impetuosa di realizzare questo film. Lavorando al copione con i suoi attori (tutti talmente perfetti da non dover essere neanche commentati: assoluta incarnazione dei propri personaggi), ne perfezionò i dialoghi fino ad arrivare alla creazione di questo antieroe esistenzialista.
Una regia lucida e pulita è assolutamente amorevole nei confronti dei suoi protagonisti, per un film sentito e sincero, lontano da ogni manierismo. Costringe lo spettatore alla visuale ristretta del taxi, a guardare tutto in soggettiva, usa vari livelli di slow motion per suggerire il grado di osservazione da parte di Travis.
La lunghezza delle inquadrature si dilata fino a raggiungere una nuova prospettiva, un diverso livello d'attenzione. È bellissimo come le riprese siano capaci di parlare per immagini, senza alcun aiuto da parte dei dialoghi; riescono a trascinare in uno stato mentale, a mostrare i pensieri che si infrangono sul bordo di un bicchiere, a sfiorare Betsy quando appare sullo schermo, a non mortificare Travis quando lei lo respinge, nascondendoci la sua prosternazione.
A ben guardare, è davvero singolare che la cinepresa di Scorsese si faccia così gentile di fronte alla miseria di Travis (il movimento di camera è puramente emozionale: è troppo doloroso guardarlo umiliarsi al telefono), quando invece tanto indugia sulla spietatezza della sua violenza da mattatoio. Inizialmente, nella ribellione finale usa dei tagli molto rapidi, a suggerire il livello di adrenalina di Travis, quindi una volta che questi è ferito e abbattuto, una lenta panoramica dall'alto riconsegna la visuale al pubblico, come se questi non avesse più le forze per farsi da tramite. Questo meraviglioso moto riflessivo mostra tutto l'orrore del suo percorso di morte e redenzione.
È un tremendo peccato che, in questa parte finale, i colori della pellicola siano stati desaturati per poterne opacizzare anche la violenza ed evitare i tagli della censura.
Infatti, come un espressionista astratto, Scorsese curò ogni dettaglio della propria tela, con un approccio a tutto campo, arrivando ad un controllatissimo caos compositivo, in cui un rosso carminio doveva essere il padrone assoluto della scena.
Tolto il colore, non resta che il fallimento di Travis a riempire lo schermo.
Un film immenso come l'umana disperazione, che reggerà sempre la prova del tempo: un canto eterno ed immutabile perché il dolore è uno ed ha una voce.
Non importa quante volte lo si sia già visto, "Taxi Driver" ad ogni nuova visione riesce a riportarci all'universo di alienazione di Travis, alla sua rabbia impotente, all'insania di una società malata quanto lui, ad una notte in cui è l'umanità ad essere vinta, non l'uomo.
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Recensione a cura di Laura Ciranna - aggiornata al 15/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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