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Matthew Bennell (Donald Sutherland) è un funzionario del Ministero della salute: controlla nelle cucine dei ristoranti che le salse o i piatti che si stanno per servire non siano adulterati, un lavoro difficile perché quando scopre irregolarità ed è costretto a prendere provvedimenti disciplinari, i gestori di nascosto gli danneggiano i vetri della sua automobile.
Elizabeth Driscoll (Brooke Adams), una sua collega addetta all'analisi batteriologica degli alimenti, ha scoperto in un giardino pubblico, mentre rientrava dal lavoro, un bulbo con un fiore sbocciato, un bocciolo raro, che cresce in fretta, rassomigliante a quelli della tipologia grex: frutto di una impollinazione tra due specie diverse da cui ne scaturisce una terza, unica, denominata epilobica (tradotto dal greco: sopra il baccello), di solito non sono fiori ma erbe infestanti, pericolose particolarmente nei giardini per la rapidità con cui diffondono le loro radici. Quest'ultime sono note per essere cresciute anche nei terreni delle grandi città devastate dalla guerra.
Il mattino successivo, la donna quando si sveglia scopre il marito già alzato, intento a raccogliere i resti del contenitore di vetro caduto per terra con la pianta grex dentro. L'uomo butta via tutto nell'immondizia, ma da quel momento il suo comportamento apparirà strano, infiacchito, apatico, poco reattivo nelle situazioni più problematiche del vivere quotidiano.
Successivamente Matthew ed Elizabeth scopriranno che la pianta è in grado di riprodurre i corpi umani e animali, probabilmente attraverso le informazioni che essa ricava con l'olfatto delle persone e degli altri esseri attratti dal suo profumo. Le vite duplicate stabiliscono poi un contatto emozionale permanente con la psiche degli uomini originari, modificandone il consueto comportamento.
Da dove viene la pianta intelligente? E che mistero interplanetario racchiude la riproduzione tipo fotocopia, interminabile, di migliaia di esseri umani destinati a non provare più angosce, odio o paure?
Premiato a Avoriaz, questo film diretto da Philip Kaufman è un remake de "L'invasione degli ultracorpi" del 1956 diretto da Don Siegel. A differenza del primo lungometraggio che si svolgeva in piena guerra fredda e nel periodo maccartista, trasmettendone proprio per questo tutta l'atmosfera cupa, tesa e sospettosa, questa pellicola girata nel 1978 si cala in una realtà sociale e politica del tutto diversa, che vede un mondo già avviato a una lenta ma costante globalizzazione economica e politicamente orientato verso lo scioglimento dei due blocchi contrapposti Usa e Unione Sovietica.
In "Terrore dallo spazio profondo", secondo adattamento al romanzo di Jack Finney (l'originale resta la versione di Don Siegel), l'ambientazione viene spostata all'interno di una grande città della California.
Il film solleva intorno al concetto esistenziale di uomo questioni filosofiche forti, note da tempo nel mondo del cinema, ricorrenti, a volte ancora di grande impatto emotivo, quali le tradizionali modalità espressive dell'egoismo umano, le rappresentazioni più negative e folli legate alle paure apparentemente irrazionali, gli effetti dell'odio nelle sue varie sfumature, il pensiero preso nell'angoscia esistenziale e sociale di tutti i giorni.
Il racconto propone una sorta di via redentrice ai peccati dell'uomo e una correzione drastica alle imperfezioni caratteriali costitutive dell'individuo, una varietà nella similarità del concetto religioso occidentale di salvezza e grazia. E' qualcosa di profondo che sembra provenire dallo spazio attraverso la spora del fiore, non in modo naturalistico-casuale ma sotto forma di messaggio spirituale vagante, scritto da entità intelligenti, come in una bottiglia che galleggia in un mare aperto e che si sa prima o poi approderà su di una terraferma, dando la possibilità a qualcuno di leggere le frasi penetranti che il biglietto racchiude.
La redenzione che il film propone passa attraverso il sacrificio in forma horror della popolazione civile, quasi come se per cambiare in positivo le pulsioni dell'uomo fosse necessaria una repressione dei modi di vita coltivati o imposti dalle situazioni più varie. L'autore del film per quanto riguarda il senso più generale che la pellicola racchiude, tenta qualcosa di molto sperimentale, prendendosi coraggiosamente un po' di rischi; si ha l'impressione che nella narrazione tutto poggi filosoficamente su un concetto di catarsi, e questo in un mondo come quello fantascientifico-cinematografico, poco incline alla tragedia teatrale che è la logica premessa al dolore purificatorio, rappresenta a dir poco una novità.
L'idea però funziona, anche se occorre dire che il film si piega un po' troppo bruscamente a codici visivi frantumati, composti da brevissime scene ad alto tasso di drammatizzazione, numerose ed efficaci ma un po' a sé stanti, nel senso che si inseriscono nell'intreccio solo evidenziando un proprio accento o punto esclamativo, senza influenzare il significato della narrazione.
Il dramma diluito nei mille rivoli che prende lo spettacolo, si allontana allora da ogni forma di tragedia nota, sfociando, come logica correttiva vuole, nel mistero, lasciando cioè in sospeso nel racconto filmico varie questioni etiche e di pensiero già ben formulate e sviluppate prima.
Non potendo usare alcunché delle logiche narrative del teatro, l'autore fa un intelligente compromesso tra dramma, tragedia e catarsi, combinandoli in modo da farne scaturire qualcosa di elaborato più su un piano letterario, calandosi nelle infinite possibilità narrative che la letteratura consente, scrivendo in un certo senso con la penna della cinepresa quanto può essere scritto sulla carta. I codici visivi classici di tipo fantascientifico ne risentono, ma tutto sommato la struttura visiva e significante del linguaggio fantascientifico di base regge, il terremoto narrativo di Kaufman non fa crepe nei muri classici della tradizione, tutt'al più ne cambia la tappezzeria passando da disegni armoniosi ed equilibrati dai colori tenui del classico a figure più bizzarre, complesse, comunque pregevolmente prive di forme artistiche legate a uno scandalismo strumentale e coerenti nel dare proporzionalità alle figure della composizione nelle inquadrature ricche di colori scuri.
La violenza nel film non è quindi fine a se stessa, ma si lega, in una forma sublimata dalle apparenze escatologiche, apocrife, laiche-religiose, a un ideale di bellezza umana a cui aspira un mondo che vede crescere negli anni '70 la sua potenza tecnologica ed economica sempre più, ma senza che a ciò corrisponde un livello di crescita della civiltà e della felicità di tutti.
La pellicola si caratterizza anche per diversi ed emozionanti camei dedicati a componenti del cast del primo film del 1956, quali il regista Don Siegel nel personaggio del taxista, Kevin McCarthy nel ruolo dell'uomo urlante in mezzo alla strada che finisce contro un'automobile, Robert Duval vestito da prete che dondola su un'altalena, ecc.
Un altro remake verrà realizzato nel 1993 da Abel Ferrara, dal titolo "Ultracorpi. L'invasione continua".
Il film funziona splendidamente anche sul piano della fotografia polifunzionale, quella cioè neutrale, non proprio legata al codice-genere del film; essa è presente a tratti in ogni opera cinematografica e riguarda un gioco estetico marginale alla trama e allo stile del genere, quasi autonoma dall'intreccio, che produce brevi situazioni di suspense visivo quasi dal nulla, tra le pieghe infinitesimali del film, qualcosa che illumina fortemente il robusto filo conduttore principale pur rimanendone separato. Grandangoli e primi piani di grande impatto emotivo, che fanno pensare all'importanza della trascrizione fotografica della realtà in funzione di uno spettacolo che va parallelo a quello legato ai contenuti della trama e degli intrecci più specifici.
Anche la fotografia allacciata un po' più direttamente agli intrecci funziona bene: l'itinerario e l'evoluzione del fiore grex dalla piccola spora trasportata dallo spazio interplanetario, poi dal vento sulla Terra e fatta cadere dalla pioggia su una foglia, è molto efficace, è un ottimo biglietto da visita per l'introduzione al film che fa ben sperare sulla qualità del seguito narrativo.
Il cane con la testa umana, i replicanti nati adulti ancora rivestiti di scaglie biologiche da parto che sorprendono i loro sosia umani lasciandoli di stucco, le onde di persone che si muovono nella città con il grosso baccello in braccio tra gente ignara di quanto sta accadendo, sono curati fotograficamente in una maniera straordinaria, tutto si muove all'esterno con grande verosimiglianza, con profondità di campo e zoomate di particolari e dettagli visivi significativi che non lasciano niente al caso.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 12/07/2011 16.14.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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