Recensione the counselor - il procuratore regia di Ridley Scott USA, Gran Bretagna 2013
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Recensione the counselor - il procuratore (2013)

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locandina del film THE COUNSELOR - IL PROCURATORE

Immagine tratta dal film THE COUNSELOR - IL PROCURATORE

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"The counselor - Il procuratore" è ambientato lungo il border fra U.S.A. e Messico: lungo quel meridiano di sangue dove oggi, il sangue, bagna le piste del narcotraffico. Un rampante procuratore (Michael Fassbender), uomo comune senza nome, innamorato della sua fidanzata (Penelope Cruz), si lascia tentare dal facile guadagno legato ad una partita di cocaina del valore di 20 milioni di dollari. L'affare proviene da un suo cliente, Reiner (Javier Bardem), affiliato di un cartello messicano insieme a Westray (Brad Pitt).

Il procuratore viene ripetutamente avvisato dei rischi in cui incorrerà: nel caso qualcosa andasse storto, le conseguenze saranno tremende.

La trama è quasi secondaria. Conta l'umore. E l'orrore, crescente e soffocante, in cui senza pietà veniamo risucchiati insieme al protagonista. Molte le ellissi compiute sui retroscena; molte cose rimangono avvolte nel mistero. Non hanno reale importanza: ciò che conta è la trama nascosta, l'ordito dietro il quale si cela l'opera della ferina donna di Reiner, la degenerata Malkina (Cameron Diaz).

 

Grande messa in scena per Ridley Scott, non nuovo a sconcertanti alti e bassi. Reduce dell'ignominioso "Prometheus" che aveva deturpato la memoria di "Alien", Scott dirige uno dei lavori più pregevoli della sua carriera (sempre di gran lunga secondo, com'è ovvio, anzitutto all'inarrivabile "Blade Runner").

Il merito va primariamente alla notevole sceneggiatura di Cormac McCarthy, che Scott adatta abilmente, sapendone amplificare asciuttezza, fermezza e intransigenza. Affidandosi ad ambientazioni fortemente espressive, fotografate con dettagliata freddezza, la macchina da presa di Scott è come trattenuta nella tensione. Scott dirige con polso saldo: non si concede virtuosismi, si limita alla contemplazione impassibile di un universo di abiezione.

In effetti sappiamo già, dal cinema, della crudezza estrema, delle efferatezze del narcotraffico. Illuminati a riguardo, di recente, anche dal Saviano di "ZeroZeroZero", il film di Scott comunque è talmente bello che, se è lungi dall'essere un capolavoro, quale ad esempio era "Gomorra" di Garrone (che viene in mente perché il senso di raccapriccio che deriva dalla visione del film è analogo), è perché soggetto e svolgimento di "The counselor" sono classici, romanzeschi, privi della veracità documentaristica del film di Garrone. E un pochino risaputi: difetta, insomma, la narrazione, di particolare originalità. Tutto il resto però, nel film, è talmente perfetto da mozzare il fiato, anche grazie a quattro interpretazioni magistrali. Il cast all-star è straordinariamente in parte. Bardem è meraviglioso nella sua duttilità; Pitt non è mai stato così poco gigionesco e tanto cinico e mediocre. Cameron Diaz è trasformata in un famelico e ferino demone di ghiaccio, qui forse nel ruolo migliore della sua carriera. Fassbender è straordinario nel mimetismo con cui rende, prima, la spregiudicatezza rampante di un uomo comune che ignora il lato oscuro delle cose, e, quindi, l'aggrovigliarsi nello strazio di quest'uomo mediocre, che aveva il paradiso e ha scelto l'inferno. A loro si aggiunge, in controcanto, una dolente Penelope Cruz che fa da agnello sacrificale.

"The counselor" si impone in maniera significativa, nello scenario del cinema contemporaneo, per il suo modo di affrontare un soggetto in qualche modo abusato con stilemi in notevole controtendenza rispetto al cinema corrente. Probabilmente è questa la ragione per cui è incompreso e sottovalutato da molti. Il linguaggio usato dai personaggi è tanto poco scurrile quanto la messa in scena è lontana dal pulp corteggiato da molti (non ultimo Oliver Stone, da "Assassini nati" a "Le belve", passando per "U-turn"). Azzerando il pulp, Scott e McCarthy compiono una decisa inversione di tendenza rispetto al postmodernismo, anche nella versione più asciutta e in qualche modo epocale dei Coen di "Non è un paese per vecchi" (adattamento, come ben noto, di un romanzo dello stesso McCarthy).

La forza del film deriva dunque dalla sceneggiatura, è senz'altro un film insolitamente verbale, e in ciò va trovata la sua originalità.

Lungi, d'altra parte, dall'essere un film statico, "The counselor" è attraversato da una tensione che progredisce parallelamente all'incupirsi della tragedia, mentre il cielo resta splendente e luminoso, indifferente alla meschinità umana: disinteressato alle sorti di uomini mediocri, che si trascinano all'inferno sulla superficie, levigata e brulla, di un deserto che è correlativo oggettivo del deserto morale.

E attraverso i dialoghi di McCarthy, filosofici senza essere retorici (sempre congrui ai personaggi e ai contesti), si dipana l'intransigente disgusto e il disincanto di un autore ottantenne che dimostra di aver scrutato lungamente nell'abisso: e, pur avendone viste di tutti i colori, ha conservato la capacità d'indignarsi.

La constatazione più amara e più forte che il film ci consegna, è che quanto maggiore sia la consapevolezza del male e delle sue conseguenze, maggiore diventa in realtà la capacità di agire nel male. Confessare il male non implica pentimento, ma lucida rivendicazione della propria natura maligna. Non c'è redenzione, né desiderio di catarsi: affidando proprio ai più spietati le riflessioni più lucide e sagge ("il dolore è privo di valore commerciale"), McCarthy apre veramente gli occhi sull'orrore. Con sguardo più che mai asciutto e disilluso.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 31/01/2014 17.23.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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