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"Maledetto il paese che ha bisogno di eroi."
Nel 2002, due anni dopo l'attentato alle Twin Towers, il Presidente USA George W. Bush decise di portare a termine ciò che a suo padre, dieci anni prima, non era riuscito: eliminare Saddam Hussein.
Ottenuta l'autorizzazione del Congresso all'intervento militare "per difendere la sicurezza USA contro la continua minaccia da parte dell'Iraq" (accusato, con prove, dimostratesi inconsistenti, di possedere armi di distruzioni di massa e di essere un pericolo per la pace mondiale), nel marzo del 2003 gli USA, con l'appoggio incondizionato dell'Inghilterra di Tony Blair, hanno scatenato un devastante attacco contro il popolo iracheno, in totale spregio del diritto internazionale.
L'attacco venne annunciato alla nazione americana con un discorso radiofonico, in cui, il Presidente trionfalmente annunciava: "La nostra missione è chiara: disarmare l'Iraq dalle armi di distruzione di massa, porre fine all'appoggio di Saddam al terrorismo, liberare il popolo iracheno".
La presa di Bagdad fu estremamente rapida e la coalizione di 49 paesi (tra cui la Spagna di Aznar, la Polonia, il Portogallo e, naturalmente, l'Italia di Berlusconi, che ha sempre sostenuto attivamente "l'amico George", garantendo appoggio politico e logistico alla macchina bellica americana, incurante dei 38 caduti tra militari e civili e compiaciuto del fatto che, da morti, poteva attribuire loro l'etichetta di eroi), in poco più di due settimane riuscirono a mettere ko il regime, costringendo il Rais alla fuga.
La missione sembrava conclusa, tanto che, nel corso di un discorso a bordo della portaerei Lincoln, che stava rientrando presso una delle basi americane, Bush aveva alle spalle uno striscione con la scritta "Mission Accomplished". Ma l'ottimismo dei primi tempi fu ben presto rimpiazzato da un atroce realismo, che mostrava un paese sconquassato dalla violenza e in balia di ogni forma di anarchia.
Saddam Hussein, giustamente definito "dittatore spietato" (anche se nel 1988, quando sterminò 5.000 curdi, le autorità americane lo chiamavano "Presidente", ne erano amici, lo aiutavano e lo rifornivano di armi), venne catturato nel dicembre del 2003 e pochi giorni dopo, nel corso di un sommario processo, durato sette giorni, venne condannato a morte e quindi impiccato.
Per Bush l'esecuzione capitale di Saddam Hussein rappresentò "una pietra miliare sulla strada della democrazia". Ora, tralasciando di analizzare le vere cause della guerra, fu subito chiaro che l'uccisione del Rais non avrebbe portato affatto la democrazia e la pacificazione del Paese, e difatti l'Iraq del post-Saddam è precipitato nel baratro della guerra civile.
È da qui che prende lo spunto il film della regista Kathryn Bigelow, "The Hurt Locker" (letteralmente "la cassetta del dolore", l'astuccio in dotazione di ciascun soldato in cui verranno riposti i suoi effetti personali, nel probabilistico caso di saltare in aria per effetto di una bomba o di una mina antiuomo), nella Bagdad mai pacificata (dove 5.000 soldati americani hanno perso la vita, e dove è impossibile calcolare il numero di morti civili), nel cuore di una guerra mai conclusa, nel corso di un disastro sociale ed economico voluto da una presidenza bugiarda e mistificatrice.
Qui, in mezzo al deserto umano morale, opera un'unità speciale di soldati, la squadra "Bravo Company", che ha il pericolosissimo compito di disinnescare bombe inesplose e prevenire attentati kamikaze, che, nella guerriglia urbana producono vittime e migliaia e indicibili sofferenze alla popolazione, stremata da anni di embargo economico.
Sono 40 giorni vissuti pericolosamente, con il fiato della morte addosso e l'adrenalina che scorre nelle vene, che il sergente maggiore William James affronta con continue esibizioni di coraggio e uno spavaldo spregio del pericolo.
Arrivato per sostituire il predecessore, di cui è rimasta solo la cassetta del dolore, dopo aver rischiato 800 volte di esplodere insieme alla bombe che ha disinnescato, James non si lascia amare dai propri sottoposti, a causa degli inutili pericoli a cui li sottopone.
È talmente abituato al pericolo che è proprio nel corso di quelle azioni, quanto più è vicino alla morte, che si sente vivo e non si accorge di mettere spesso a repentaglio la vita dei suoi commilitoni.
Costruito sui resoconti di guerra del giornalista, premio Pulitzer, Mark Boal (qui anche sceneggiatore), "The Hurt Locker" vuole costringere alla riflessione tutti coloro che pensano che si stia lì per insegnare ad un popolo la democrazia, e cerca di raccontare il senso della guerra a chi della guerra non ne vuol sapere, ma anche a chi ha fame di verità ma la guerra non la conosce perché i media censurano o falsificano ciò che succede là dove la guerra si combatte.
Ma il film cerca anche di raccontare le differenze emotive e caratteriali che portano chi la guerra la fa a reagire diversamente di fronte al pericolo sempre più palpabile e vicino.
Oltre al temerario James, che sembra non possa più fare a meno di sfidare la morte, che si sente vivo quanto più è vicino alla morte, che si sente uomo quanta più adrenalina gli scorre nelle vene, con quelle continue esibizioni di coraggio che sfiorano la temerarietà, e quella forza seduttiva che la guerra esercita su di lui, e che neppure il figlioletto appena nato sembra placare, c'è il più riflessivo Sanborn che, conscio dei propri limiti, non vede l'ora di tornare a casa, ma ligio alle regole non si sottrae al proprio dovere.
Infine c'è lo spaventato Owen Eldridge, il più giovane dei tre, testimone impotente del dissidio, riguardo la diversa visione della guerra, che dilania gli altri due, e terra di conquista delle diverse ideologie che muovono le loro azioni.
E non manca il classico Doc, un dottorino, probabilmente un figlio di papà, sfornato da qualche esclusiva università della costa del Pacifico.
E per ultimo ci sono loro:
- l'Iraq (per ovvi motivi, abilmente ricostruito in Giordania), un Paese in ginocchio a causa dei lunghi anni di sanzioni economiche, occupato e devastato, ostile e avverso, feroce e violento; dove la sabbia si mescola al sangue e odora della nitroglicerina usata come esplosivo, più che di petrolio che brucia incessantemente e colora di rosso il plumbeo cielo. Dove iracheni uccidono altri iracheni e ogni cumulo di immondizia nasconde una trappola mortale;
- gli iracheni, stremati, decimati, resi insensibili dalla paura e dalla fame, indifferenti alla morte che osservano dalle finestre, incuranti dei bambini che vengono usati come bersaglio e dei cecchini che stanno appostati sulle terrazze. Un intero popolo che progetta ordigni esplosivi ed è disposto a tutto, anche all'autoimmolazione, pur di cacciare chi li ha invasi senza un motivo.
Ma la guerra dei volontari è come droga dell'anima per quegli uomini, con il loro machismo, le loro ubriacature, le loro scazzottature, il loro collezionismo di pezzi di ordigno disattivati. Drogati di adrenalina, vittime del loro lavoro, offuscati da tanti orrori, in una città occupata e devastata, dove chiunque è un potenziale nemico, dove ogni oggetto rappresenta un'insidia, dove diventa impossibile tornare alla vita normale.
Non ci sono però buoni e non ci sono cattivi, non ci sono eroi e non ci sono vigliacchi, solo uomini e la follia della guerra, con gli americani occupanti e gli iracheni vittime della loro stessa inutile follia.
Ed è qui che sta, forse, la maggiore ambiguità del film: nel non prendere una posizione netta, decisa, risoluta, ferma, contro una guerra sbagliata, crudele, inutile, folle.
Dire che la guerra è malvagia e insensata non basta, perché è un messaggio trasversale su cui tutti, da una parte e dall'altra, ci si può trovare d'accordo. Ma il messaggio trasversale non basta di fronte a una lettura della guerra come palestra di coraggio, come che procura assuefazione; quello che manca, a mio avviso, è un giudizio morale preciso contro la legge della violenza e della barbarie, imposta al mondo intero da una potenza che crea mostri e poi si indigna che ci siano.
Certo il film non mitizza la guerra, anzi la mostra in tutta la sua spregevole oscenità, in tutto il suo carico di dolore e di crudeltà, in tutta l'angoscia che procura la paura della propria e dell'altrui morte, in tutto il logorio che provoca la sfida quotidiana contro il destino. Nonostante questo non è un film nettamente antimilitarista e non è un film contro la guerra, ma solo un film di guerra e su degli esseri umani in guerra. E su quanto inconciliabili siano la guerra e la normalità della vita.
Certamente il film è complesso e strutturato in modo quasi documentaristico, molto bello e ben fatto, robusto e virile, potente ed adrenalinico, che avvince e coinvolge, che ti avvicina a quel manipolo di guerrieri e ti contagia con il loro arcaico codice d'onore, ti fa sentire l'odore del sangue e la paura della morte, il sapore della polvere e la tangibilità del pericolo che "droga" gli uomini, resta comunque il dubbio sul messaggio ideologico del film, anche se la regista, durante la conferenza stampa a Venezia (dove il film è stato in concorso nel 2008), ha rivendicato il diritto di essere neutrale nell'osservazione del conflitto e di documentare con la massima obiettività possibile un aspetto di una guerra lontana e dimenticata.
"The hurt locker" ha vinto sei statuette (tra cui miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura originale), su nove nomination nell'edizione 2010 dei premi Oscar, ed è interpretato da un sorprendente e bravissimo Jeremy Renner (il sergente maggiore William James), affiancato da Anthony Mackie (il nero J.T. Sanborn) e Brian Geraghty (il biondo e terrorizzato Owen Eldridge), e con le brevi partecipazioni di Ralph Fiennes e Guy Pearce.
"Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui iniziamo a tacere sulle cose che contano."
(Martin Luther King)
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 16/03/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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