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E' il 1947 quando viene ucciso il generale Aung San in Birmania per mano dei suoi rivali politici. L'ultima parola da lui pronunciata, mentre brindava con gli altri esponenti del partito comunista, è "democrazia".
Dopo 41 anni sua figlia, l'ormai 43enne Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh, "La tigre e il dragone" e "Memorie di una Geisha"), torna a Rangoon, l'allora capitale della Birmania, per vegliare al capezzale della madre ormai morente.
Ciò che la accoglie è una situazione orribile. Per anni lontana dalla sua terra, dopo essersi laureata ad Oxford, aver sposato lo studioso Michael Aris (David Thewlis, "Omen - Il presagio" e "Sette anni in Tibet"), ed aver messo al mondo due bambini, Alex e Kim, la situazione della sua terra è drasticamente peggiorata rispetto a quando l'ha lasciata. E certo non fa piacere all'attuale dittatore, il generale Ne Win, questo suo ritorno in patria, seppure temporaneo data la malattia della madre.
Diritti inesistenti, universitari in strada fucilati a sangue freddo, ospedali costantemente pieni e nessuna speranza nel futuro. Questo è ciò che gli occhi di Aung San Suu Kyi vedono e accettano senza poter fare nulla. Fino al giorno in cui, dopo aver visto spegnersi la madre, accetta le richieste dei suoi connazionali. E' il settembre del 1988 quando fonda la "Lega Nazionale per la Democrazia". Influenzata dalle letture su Ghandi, con la volontà di portare avanti la sua causa, si piega agli arresti domiciliari, rifiuta di tornare ad essere una moglie e madre libera facendo ritorno in Inghilterra, e si sottopone ad un rigido sciopero della fame per 12 giorni.
I suoi sforzi vengono ricompensati prima con la schiacciante vittoria nelle elezioni del 1990 (cosa che non la libera dai domiciliari) poi con il premio Nobel per la pace nel 1991. Eppure sarà liberata dagli arresti solo 4 anni dopo. Ma il regime ostile, continuando a far sentire il suo peso politico, impedisce al marito (malato di cancro) e ai figli di andarla a trovare, anche in punto di morte di lui. L'ultimo sgarbo è l'offerta di poter far ritorno in Inghilterra per stargli vicino. Se accettata, non avrebbe poi mai più potuto tornare in Birmania ad aiutare il suo popolo. La decisione è terribile e le parole di uno dei generali lo sono ancora di più: "Scelga tra la sua famiglia e la sua patria". Aung San Suu Kyi non vacilla, piange la sua scelta, ma la strada è ormai tracciata. Tuttora non ha fatto ritorno dai suoi figli...
Difficile nei nostri paesi civilizzati, dove spesso l'unico pensiero di un ragazzo sui 15 anni è comprare il nuovo modello di Play Station, spiegare la situazione di un popolo come quello birmano. Eppure questo "The Lady" arriva al cuore anche di chi non vuole vedere. Luc Besson, che da anni non sbaglia un colpo, e che già ha firmato pellicole come "Nikita", "Leòn", "Angel-A", "Subway", si cimenta con la vera storia di Aung San Suu Kyi, confrontandosi con una realtà dura, con l'impossibilità di poter attingere notizie e riferimenti dai protagonisti. Solo grazie all'aiuto dei giornalisti, di Amnesty International e di Google Earth sono state possibili talune ricostruzioni.
Ciò che nel nostro Paese è dato per scontato, in Birmania non lo è: fino a 2 anni fa girare col Times in mano poteva costare la prigione. Essere turista in quei posti significa avere un tempo limitato per visitarli percorrendo un unico tragitto già deciso dalle autorità. E ancora: nessuno, lì, osa pronunciare il nome di Aung San Suu Kyi per paura. Da qui il titolo del film: per tutti lei è semplicemente "The Lady".
Nell'era dell'informazione globale, con internet che apre le porte della cultura a chiunque con un click, rimangono nella mente del regista gli attori birmani che, vedendo Michelle Yeoh con quei vestiti sul set, pensavano fosse realmente lei, e si inginocchiavano al suo passaggio.
Memorabile la scena, una delle poche documentate con assoluta certezza, in cui The Lady si avvicina ai militari che la esortano a fermare i suoi passi, e mentre uno di loro conta prima di aprire il fuoco, la vediamo sorridere, ferma nella sua convinzione.
Se grandiosa è Michelle Yeoh nella parte principale, altrettanto maestoso è David Thewlis nei panni del marito. Quante volte si è detto che "dietro ogni grande uomo c'è una grande donna"? Questa volta il suo personaggio, Michael Aris, ci dimostra che è vero anche il contrario. Sempre dalla parte di Aung San Suu Kyi, pur quando capisce di non poterla avere vicina nel momento della morte e la esorta anzi a non tornare per non rendere vani gli sforzi degli anni precedenti, perché capisce che la libertà di un popolo va ben oltre il bisogno del singolo, e anche di quello dei suoi figli.
Il film ha quasi interamente come sfondo la Tailandia, solo pochi minuti sono stati girati realmente in Birmania, come ad esempio le riprese della Pagoda di Shwedagon, situata al centro di Rangoon.
Ciò che deve far riflettere per non dimenticare gli orrori di cui a volte è capace la mente umana, è che questo film è vietato in quei posti. La sua protagonista, Aung San Suu Kyi, tuttora non lo ha potuto vedere. Niente di meglio di una sua frase per capire lo spirito della storia, quasi come fosse un monito a tutti noi, agli artisti, ai critici: "Usate la vostra libertà per aiutarci a ottenere la nostra".
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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 23/03/2012 15.39.00
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