Voto Visitatori: | 7,30 / 10 (45 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
"Tomboy" è la storia di una bambina quasi adolescente, Laure, che - a quanto ci è dato vedere per via del suo aspetto fisico (il film infatti è felicemente scevro da spiegazioni psicologiche) - si sente maschio e percepisce in modo assolutamente lineare e intimamente serio questa incipiente identità maschile, pur vivendola con la leggerezza di un gioco.
La sua famiglia si è da poco trasferita, sul finire dell'estate, in una nuova città. Laure non conosce quindi nessuno dei suoi nuovi compagni di giochi, che presto saranno suoi compagni di scuola, e ha la possibilità di farsi conoscere da loro come Mickaël. Ma l'inizio dell'anno scolastico incombe, la separazione tra la dimensione domestica e quella sociale dei giochi con i coetanei non potrà durare a lungo. Lo spettatore - in empatia con Laure sin dall'inizio - sa bene quanto sia precaria e costantemente minacciata questa dimensione felice. Ne scaturisce la velata patina "thrilling" che insaporisce il film e veicola più che altro un turbamento, quasi un'ansia - in perfetta assonanza con i sentimenti che leggiamo sul volto di Laure. E' l'adolescenza che bussa alla porta: il dover fare i conti sempre più da vicino con la dimensione adulta e le sue regole. Ma quella di Laure non è ancora, non è per nulla una ribellione: è solo la spontanea, naturale e fragilissima costruzione di un'identità. E il nostro turbamento, la nostra ansia di spettatori, scaturiscono dalla consapevolezza di quanto quel delicato processo sia troppo solitario, troppo minacciato.
Magnifico film, questo "Tomboy" (che si potrebbe tradurre con "maschiaccio"). E' il secondo lungometraggio di una regista francese nata nel 1978, Céline Sciamma, che ha raccolto diversi premi in vari festival internazionali, fra cui quello del pubblico al 26° GLBT Film Festival di Torino e il premio della giuria "per la maestria, la sensibilità e la leggerezza, ma anche per la profondità con cui viene trattato il tema dell'identità sessuale nel tempo dell'infanzia".
E' un vero peccato che tutte le brevi righe che introducono la trama di "Tomboy" rivelino quello che è un vero e proprio spoiler, ossia l'identità sessuale della protagonista. Infatti, l'aspetto dell'attrice che impersona Laure è così perfetto nell'apparire mascolino (miracolosa la scelta dell'interprete adeguata - era una scommessa difficilissima da vincere), che sino a un certo punto della pellicola in cui ci viene mostrato il suo sesso mentre si leva dalla vasca da bagno, lo spettatore è tenuto all'oscuro e non sospetta sia una bambina. Si sarebbe naturalmente incuriositi da vari indizi, ma non pare di ricordare - dopo una prima visione - che Laure, prima di quel punto, sia mai stata chiamata per nome dai genitori o dalla sorella più piccola, che da un certo punto in poi sarà la sua "alleata" e che vive con lei una speciale adesione e complicità.
Da quel momento (già da prima, per chi già sa che Laure è una bambina) viviamo dentro una vertigine. Continuiamo infatti a essere così persuasi che sia un maschio - non Laure, ma Mickaël, quando gioca con i compagni - che non veniamo poi a patti con il suo essere una bambina, quando la vediamo dentro casa. E' veramente straordinario il modo in cui la regista (e la fantastica piccola interprete, Zoé Héran) hanno saputo trasmetterci quanto la veracità del "sentirsi maschio" da parte di Laure non sia affatto un gioco, un'impuntatura infantile, ma rappresenti per lei proprio la naturale visione di sé, lo sviluppo spontaneo della propria identità: nientemeno che la più genuina chiave d'accesso alla socialità e agli affetti.
Semplicemente assistere al personaggio-Laure dà una vertigine: è un maschio, non può che essere un maschio, eppure ha un fascino femminile che la regista riesce a non rendere androgino né ambiguo. E' proprio quel che resta in lei (lui) di femminile, del resto, a distinguerlo dagli altri maschi e ad attrarre la coetanea Lisa, che nota in lei (lui) qualcosa di speciale.
Nella parte finale della pellicola, che ovviamente non sveliamo, si chiarirà in maniera cristallina quanto poco l'identità sessuale sia un fatto genitale e quanto importante sia invece il modo in cui guardiamo noi stessi e vogliamo che gli altri ci guardino. L'identità individuale non è mai il prodotto puro di una libertà irrelata - pensarlo sarebbe un'illusione. E' unicamente confrontandoci con gli altri che sappiamo chi siamo noi stessi o chi vorremmo essere. E' per questo che è drammatico e violento il rifasamento dello sguardo altrui su di sé, quando Laure viene costretta a un tentativo di "normalizzazione".
La "norma". Ciò che è norma è forma e costrizione della libertà. La libertà vive in una dinamica con gli altri: la socialità ci condiziona, sì, ma siamo noi, pur condizionati, a scegliere in quale veste e ruolo interagire. E' un nostro diritto. Allora restiamo liberi. A rendere prezioso "Tomboy" è che questo tipo di riflessioni non emergono assolutamente mai come una tesi di sociologia, ma scaturiscono attraverso un'opera d'arte che affronta di petto il mistero dell'infanzia, sa scrutarlo a fondo e restituirne, dall'interno, la grandissima distanza che c'è fra la naturalezza, la luminosità, la ricchezza della visione infantile del mondo e il rigido schematismo della normalità adulta. Un critico francese ha scritto che l'identità di Laure "si costruisce quando la minaccia dell'adolescenza è all'orizzonte" e che il film mostra "attraverso una porta socchiusa che i bambini sono esseri complessi che gli adulti non capiranno mai". Leggendo queste parole abbiamo capito meglio perché il film, istintivamente, ci avesse ricordato così tanto "I 400 colpi" di Truffaut.
Con tutta la sua sensibilità, la sua freschezza e la sua austerità, la pellicola colpisce per come la semplicità della vicenda non sia mai turbata dalla complessità dei temi che affronta. Il film è condotto, senza un'ombra di psicologismo, da uno sguardo che padroneggia uno stile cinematografico ben vivo in Francia e che da noi si è quasi perduto. Un modo di raccontare che, rapportato al cinema di oggi, si può dire "dardenniano", ma viene da lontano: dal neorealismo italiano e da Bresson, passando attraverso il big bang della nouvelle vague francese. Il miracolo di questo fare cinema sta nel dissimulare completamente la direzione degli attori, al punto che pare di osservare vere scene di vita. L'opera ne guadagna in spontaneità e comunica quell'illusione di verità che è il naturalismo. Quest'arte in Italia sta diventando più unica che rara: proprio da noi, patria del neorealismo.
In Francia, invece, il film ha riscosso non solo un grande successo di critica, ma è stato un caso perché ha richiamato quasi trecentomila spettatori. Difficilmente "Tomboy" sarà un successo in Italia: ma il vero dramma è che la rete di distribuzione e pubblicità è talmente prona sull'idea che questo cinema sia elitario e impegnativo, che anche i - rari - bei film italiani diretti con una sensibilità che si avvicini a quella dimostrata da Céline Sciamma trovano una distribuzione marginale e sono condannati in partenza a non esser conosciuti.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 30/09/2011 16.14.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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