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"La vita è come un film. Giunta alla fine si riguarda dall'inizio"
Pupi Avati
L'autore che si innamora delle sue storie è reticente alla sfida, se ama i personaggi perde di vista la razionalità richiesta. Pupi Avati si riprende dalle polemiche all'ultimo festival di Venezia (l'esclusione come film in Concorso rispetto all'opera prima di Ascanio Celestini), e continua a soggiogarci con la morale para marzulliana di un aforisma scelto come emblema teoremico del suo nuovo film.
Che la vita non sia esattamente un film (se "film" lo intendiamo nella sua accezione più romantica, sognante), lo dimostra la nostra era contemporanea, ma quel che conta è che Avati sembra credere ancora ad un cinema elegiaco e struggente, che spodesti l'amarezza in un contesto poetico quasi assolutorio.
Un'impressione confermata dalle sue opere più recenti, dove il personaggio più scomodo passa attraverso la redenzione del suo autore, o - nei casi più estremi - all'estinzione del suo pensiero.
L'importante è guardarsi indietro, e ritrovare la serenità di un tempo.
L'esistenza temporale sembra crogiolarsi davanti all'inesorabile ingiustizia di una serie di eventi che irrompono nel grigiore quotidiano dei nostri equilibri.
Anche stavolta, davanti a un titolo così allusivo e romantico, sembra che nulla sia cambiato nel cinema di Avati da diversi anni a questa parte. C'è un anacronismo indotto che sembra rivelarsi davanti a quel mondo "migliore e imperfetto" che abbiamo consapevolmente ucciso tanti decenni fa. Un manierismo fatto di personaggi abbozzati nella loro sconfinata suggestione, comprimari della vita di ciascuno, di cui restano i ricordi delle fattezze fisiche, dei tic comportamentali, delle peculiarità di carattere.
Ritroviamo gli zii di Lino (tra i quali un'irriconoscibile e rediviva Serena Grandi), il tragico incidente che lo privò dei genitori, i casuali amici d'infanzia e il successivo passaggio di un bambino in riformatorio. Davvero strano che due film diversissimi tra loro come questo e "La pecora nera", in questa sorta di involontaria competizione, abbiano come elemento in comune un passato per certi versi non meno doloroso del presente.
Ma, per quanto restino immutate le caratteristiche che fanno di Avati uno degli autori più riconoscibili del nostro cinema, "Una sconfinata giovinezza" comunica un senso di struggente alienazione o, al contrario, di empatia psicologica, come non accadeva da tempo.
Per quanto il regista si premuri di indicare una via affettiva distintiva nell'intera vita di Lino, l'amarezza che si cela nel corso degli avvenimenti è tale che lo spettatore non può eluderla.
Il racconto di vita di Lino Settembre, brillante cronista sportivo del Messaggero - chissà perchè ricorda tanto la vis polemica di Gianni Brera, morto quasi vent'anni fa in un incidente stradale - non è esattamente quello che Avati ambisce descrivere, prima o dopo la sua improvvisa defiance mentale.
Il protagonista, noto per la sua metodicità professionale, perde improvvisamente di vista i suoi obiettivi, operando perciò una traslazione - a volte troppo lucida per essere persuasiva - verso un passato che attraversa la vita futura a mò di bilancio esistenziale. Fioriscono perciò piccole meschinità (l'anello cinicamente raccolto dalla zia dalla macchina scassata dei genitori di Lino o l'affidamento del nipote a un istituto che si prenda cura di lui). E sono le stesse che vedono l'uomo alle prese con l'orripilante famiglia della moglie Chicca, pretestuosamente avversi all'uomo da sempre, in fin dei conti complici nel costringere la donna, convinta di predisporre dei mezzi necessari a curare il marito, a separarlo da lui.
Emblematico, in questo caso, un momento dell'epilogo, dove davvero Chicca accondiscende ai voleri del fratello come non aveva fatto molti anni prima.
La viscida solidarietà dei genitori di Chicca o del fratello si trasformano in un solido alibi per dimostrare che l'integrità mentale di Lino, in fondo, era già stata messa in discussione in passato.
Pupi Avati racconta l'Alzheimer con un certo disagio, senza penetrare a fondo nella difficoltà dei malati, schivando proprio quel sisma mentale che provoca una obiettiva incapacità di interagire con gli altri.
Ne osserva i rari momenti di lucidità (non certo così logici come quelli del film) e le costanti ricadute, regalando comunque allo spettatore un personaggio memorabile, interpretato da Fabrizio Bentivoglio.
In un certo senso invece il regista si riconosce nel sacrificio di Chicca e nelle sue impossibili imprese - spesso più dannose che amorevoli - per ritrovare un contatto nel mondo ormai senza tempo del consorte.
E' anche in questi contrasti che il film sembra chiudersi in un cerchio, come se a dominare fosse tutta l'incapacità del regista emiliano di accettare senza riserve la ferita inferta al suo personaggio.
Invece no, non accade.
Perché il film lascia per strada lo stesso senso di smarrimento di Lino, perché ci porta, commossi, verso un principio di negazioni e alla fine finisce per assolvere le azioni, i gesti di chi ha amato e chi per niente.
Interpretato da due attori in stato di grazia, si segnalano anche uno stuolo di magnifiche caratterizzazioni secondarie: un ritrovato Lino Capolicchio nel ruolo dell'odioso fratello di Chicca, la madre impersonata da una vecchia gloria del nostro cinema come Isa Barzizza, il subdolo taxista Gianni Cavina, testimone involontario dell'epilogo del film, un ruolo postumo per il compianto Vincenzo Crocitti.
Nonostante le sue pecche formali "Una sconfinata giovinezza" rappresenta una vera e propria sorpresa nel cinema solitamente demodè dell'Avati "classico". Fortemente empatico con chi lo riconosce e, per una volta, capace di sottili crudeltà verso personaggi che forse (eccezionalmente) non ama. E tutto si chiude - in modo splendido e magari contestabile - in quel bisogno di liberarsi da quel rigido e supponente formalismo che è la normalità.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 25/10/2010 11.58.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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