Recensione under suspicion regia di Stephen Hopkins USA 2000
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Recensione under suspicion (2000)

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locandina del film UNDER SUSPICION

Immagine tratta dal film UNDER SUSPICION

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Immagine tratta dal film UNDER SUSPICION
 

"Under Suspicion" è il remake americano della pellicola francese "Garde à Vue" diretta Claude Miller nel 1981, e da questa non può e non riesce a prescindere in nessun modo. Il soggetto, tratto dal romanzo "Brainwash" (1979) di John Wainwright, offriva un intreccio narrativo di scarsa originalità, ma consentiva la realizzazione di una messa in scena di grande efficacia e d'importante impatto sociale.
Ora, se Claude Miller, grazie anche all'ausilio di Jean Herman per l'adattamento e a quello di Michel Audiard per i dialoghi, era riuscito a costruire una sceneggiatura solidissima e a dirigere una pellicola, formalmente ineccepibile e senza alcuna sbavatura, non possiamo affermare altrettanto per la trasposizione operata dal regista jamaicano Stephen Hopkins. Questi non ha messo in alcun modo mano alla sceneggiatura, riprendendo pari pari quella scritta dagli autori francesi e lasciando che fosse adattata ed attualizzata dallo sconosciuto Tom Provost e dallo sceneggiatore W. Peter Ilif, noto quasi esclusivamente per la sceneggiatura di "Point Break" e di "Giochi di Potere". Per comprendere bene le differenze cagionate da questa riscrittura occorre soffermarci brevemente sulla storia.

Il nucleo narrativo non potrebbe essere più semplice. Un uomo, ricco ed importante, dichiara di aver scoperto casualmente il cadavere di una bambina sconosciuta. Si tratta della seconda vittima del medesimo assassino, rinvenuta a distanza di pochi giorni. Invitato al comando di polizia per rivedere alcuni dettagli della propria deposizione, il testimone si troverà presto a vestire i panni dell'indagato a causa di alcune sue contraddizioni che sembrano aver convinto gli inquirenti che sia proprio lui il pedofilo maniaco, che stupra, uccide, mette in posa e fotografa le proprie vittime. Seguirà un durissimo interrogatorio astrattamente e teoricamente volto all'accertamento della verità.

Il film di Hopkins perde gran parte di quel clima claustrofobico, inquietante e soffocante, di matrice kafkiana che risulta così efficace nella pellicola di Miller, grazie alla cura scrupolosa che quest'ultimo aveva prestato ad ogni singolo dettaglio e ad ogni singola sfumatura. La sceneggiatura americana accentua maggiormente il tema dello scontro di classe, dell'invidia, della schermaglia dialettica fra accusato ed accusatore e presta meno attenzione al conflitto schiacciante fra l'esercizio di un potere istituzionale ed il singolo individuo, oltre che al rapporto che lega e separa al contempo il protagonista e sua moglie. Infatti se in "Garde à Vue" la più acerrima accusatrice del sospettato è proprio sua moglie, che si dimostra anche la più valida alleata dell'ispettore di polizia, in "Under Suspicion" il personaggio di Chantal (Monica Bellucci) risulta più addolcito. La donna, cedendo alla propria debolezza caratteriale, si limita a dubitare dell'innocenza del marito, manifestandosi semplicemente incline a credere alle accuse formulate dal Capitano della Polizia di San Juan, e fornisce a quest'ultimo solo un blando aiuto.
Queste macroscopiche differenze ed un finale decisamente più edulcorato rispetto a quello della pellicola francese, fanno di "Under Suspicion", un film di gran lunga inferiore a "Garde à Vue", ma non per questo si tratta di un'opera da disprezzare.
I meriti maggiori di questa pellicola, benché derivino quasi interamente dal film da cui è tratta, si concretizzano nel modo efficace in cui riesce a trasmettere il pericolo della formazione del pregiudizio negli organi inquirenti. I passaggi attraverso cui il Capitano Victor Benezet (Morgan Freeman) sembra convincersi della colpevolezza del sospettato Henry Hearst (Gene Hackman) non mostrano nessuna vera e propria progressione psicologica. La ragione di tale scelta è semplice: Benezet non sta cercando di scoprire la verità né sta cercando di capire realmente se l'uomo che siede di fronte a lui sia colpevole o innocente. Benezet è convinto fin dal principio che Hearst sia il maniaco, che sta cercando, e fa di tutto, trabocchetto dopo trabocchetto, per suffragare la propria convinzione. Più che cercare la verità, egli si attacca esclusivamente a tutti quegli elementi che possono essere utili per dimostrare la sua tesi. Egli, alla stregua di un sarto, cuce addosso al sospettato i panni dell'assassino e fa di tutto perché questi gli calzino a pennello.
È altrettanto affascinante l'analisi di una realtà fondata sui condizionamenti sociali, la creazione e la progressiva demolizione di quella maschera pirandelliana che ciascuno si trova costretto ad indossare in nome dell'apparenza e della convivenza. L'interrogatorio è volto all'abbattimento di questa facciata e finalizzato a mettere a nudo il vero volto che si cela sotto la maschera sociale. La faccia segreta, che viene così svelata, è umana, fragile, in balia delle pulsioni più profonde dettate dall'Es e schiacciate dal Super-Io, cattiva e cinica quando i suoi desideri sono frustrati, ansiosa di nascondersi per poter essere socialmente accettata, ma anche ansiosa di manifestarsi nella propria pienezza, liberandosi così da qualsiasi condizionamento.

Il personaggio di Henry Hearst incarna perfettamente tutto questo e dimostra, come un individuo che segue i propri desideri e che dà libero sfogo alle proprie inclinazioni, specie se queste sono l'effetto di una frustrazione pregressa, sia costretto a nascondersi e a vivere ai margini della società. Quando poi egli, sentendosi attaccato da più fronti e messo alle strette, cerca d'invertire i ruoli e cerca di far cadere, riuscendoci, anche la maschera dietro cui si celano i suoi accusatori, allora appare ormai troppo fuori controllo per poter risultare ancora un membro rispettabile dell'altrettanto rispettabile società. Quindi la sua personalità non può non coincidere con quella di un mostro.
In tal senso è stata ben sviluppata la progressiva scoperta della faccia nascosta di Hearst. Lo spettatore si trova di fronte ad un personaggio il cui profilo psicologico sembra coincidere quasi perfettamente con quello del maniaco ricercato. E qui entra in gioco un tema ancora più complesso: ossia il confine fra indizio e prova di colpevolezza. Tutto l'interrogatorio cui Hearst viene sottoposto, come accennato, non è volto ad accertare la verità. Il Capitano Benezet e il suo tirapiedi Owens (Thomas Jane) sono convinti della colpevolezza del ricco avvocato, ma sanno anche di non avere uno straccio di prova contro di lui. Certo esistono degli indizi e delle coincidenze che, grazie anche alle contraddizioni e all'atteggiamento provocatorio assunto da Hearst, possono far sorgere il dubbio, ma questi non sono ammissibili in uno stato civile di diritto positivo a legalità formale (ciononostante in Italia capita di essere condannati con elementi assai più blandi). È per queste ragioni che tutto l'interrogatorio è volto ad ottenere soltanto una cosa: una confessione. Questa potrebbe essere la sola vera prova, validissima in qualsiasi tribunale, della colpevolezza di Henry Hearst. Ed ecco quindi i passi, uno dopo l'altro, con cui possono crearsi gli errori giudiziari. Si parte con la formazione del pregiudizio di colpevolezza da parte degli organi inquirenti nei confronti del soggetto indagato. Segue un'attività istruttoria finalizzata solo ed esclusivamente a dimostrare la tesi ipotizzata dagli inquirenti, tralasciando qualsiasi altro fatto o dettaglio. Si rivelano tanto all'indiziato, quanto ai possibili testimoni (nel caso specifico la moglie), gli elementi già scoperti, violando così uno dei principi fondanti dell'Istruttoria, secondo cui l'audizione delle persone informate dei fatti è finalizzata alla raccolta di elementi ancora sconosciuti e quindi all'accertamento della verità. In tal senso è esemplificativa la confessione finale che rilascia Henry Hearst: essa non aggiunge nessun dettaglio a quanto gli investigatori sapevano già, ma si limita a riportare con dovizia di particolari tutto quello che, durante l'interrogatorio, il presunto colpevole ha appreso dai suoi persecutori. *1
La scoperta finale del vero colpevole dimostra l'incolmabile divario che esiste fra l'indizio e la prova e spiega perché solo quest'ultima dovrebbe essere utilizzata in tribunale. Il fatto che Henry Hearst dimostri inclinazioni ed attitudini che possono far ricadere su di lui un forte dubbio di colpevolezza, appare essere l'elemento sufficiente per reputarlo responsabile di un duplice delitto. La conseguenza di questo è semplice e sconvolgente: si arriva a punire un uomo non per i fatti che ha commesso (come invece è previsto in tutti gli stati di diritto a legalità formale e non materiale), ma per ciò che è nella propria intimità, per il suo modo di essere.
Tale argomentazione giuridica richiederebbe ulteriori spiegazioni, ma non in questa sede. Così come nella pellicola in esame, tali tematiche si danno (erroneamente) per conosciute, così pare giusto fare anche in sede di recensione.

A questo punto, direte voi, perché mai un innocente dovrebbe arrivare a confessare un delitto che non ha commesso?
La risposta è assai più semplice di quanto possa non apparire: perché è liberatorio.
In maniera meno semplicistica si potrebbe dire che l'individuo sottoposto alla logorante pressione dell'interrogatorio si trova di fronte ad un bivio: lottare fino allo strenuo per difendere la propria verità e quindi la propria vita, oppure accontentare il suo torturatore e raccontargli quello che vuole sentirsi dire. A questo si accompagna anche un fenomeno psichico di parziale perdita dell'Io. Lo stress mentale prodotto dall'interrogatorio, dal clima di diffidenza, dal sospetto, dalle accuse, dagli sguardi malevoli di tutti coloro che prima chiamavi "amici", perfino da tua moglie, è schiacciante. I ricordi si annebbiano e nasce quel fenomeno di dicotomia, così ben analizzata da Proust, fra la memoria volontaria, che può essere indotta anche da terze persone e che raramente ricostruisce il reale svolgimento dei fatti, e quella involontaria, in quanto tale pura e genuina.
Calando tutto ciò nel contesto specifico, lo spettatore si trova di fronte ad Henry Hearst. È un uomo ricco e potente, ma vive una vita profondamente infelice. È innamorato di sua moglie, ma lei lo respinge. Avrebbe voluto dei figli, ma non ne ha. Si reputa un mediocre che ha avuto una fortuna che non si è mai guadagnata. Si sente profondamente solo, al punto di portare con sé il cane dei vicini. Quando l'accusa più infamante si abbatte su di lui, tutti gli danno contro. Ma egli resiste, umiliazione dopo umiliazione, sofferenza dopo sofferenza, fin quando non scopre che proprio sua moglie non solo lo reputa colpevole, ma lo tradisce nel peggiore dei modi: aprendo agli accusatori la sua casa, simbolo della loro intimità e della loro vita privata. A quel punto perché continuare a soffrire? Per difendere che cosa? Una vita infelice, che si detesta?
E non può non saltare agli occhi dello spettatore come, a partire dal momento in cui Hearst si dichiara colpevole dei reati ascritti, tutti, ad eccezione della moglie, diventano improvvisamente gentili e cordiali con lui. In altri termini: fin quando sulla tua testa incombe l'ombra del dubbio, i tuoi diritti sono violati, la tua personalità e la tua intimità sono violentate, sei circondato da odio, diffidenza e disprezzo. Quando invece tu dai ragione ai tuoi persecutori, allora rientri nei canoni sociali, perché, anche se il tuo ruolo è cambiato e da uomo rispettabile ti sei dimostrato un pedofilo assassino, sei comunque inquadrato. La società non ha paura di chi fa del male, ma teme di non riuscire a dare un volto a questo nemico, che striscia in seno ad essa.
Hearst confessa un fatto che non ha commesso, perché, senza uno scopo, la sua mente non è più in grado di combattere e cerca sollievo. In realtà la sua reazione non deve sorprendere più di tanto, perché è praticamente analoga a quella di un uomo che sta impugnando un ferro arroventato (era una prova giudiziaria della verità utilizzata nel medioevo) e abbandona la presa perché non è più capace di sopportare il dolore.
Come ulteriore chiarimento di questo concetto mi affido alle parole di Agatha Christie tratte dal romanzo Verso l'Ora Zero, al cui principio una ragazza confessa di essere l'autrice di alcuni furti, che in realtà non ha commesso, e quando suo padre le chiede il perché, lei così risponde:

"[...] ero sicura che credesse che fossi io la colpevole. Sentivo che arrossivo. Le altre ragazze mi osservavano. Era terribile, papà. Da quel giorno le mie compagne hanno cominciato a guardarmi in modo strano, a sussurrare fra loro, io capivo benissimo che cosa pensavano. [...] Sentivo gli occhi della signorina Amphrey fissarmi, come per scavarmi dentro. E dopo quella sera, è stato peggio, sempre peggio, fino a quando [...] non ho retto più e ho confessato che ero stata io. Oh, papà, non sai quale sollievo!"

Indubbiamente Hearst non avrebbe mai rilasciato tale confessione se sua moglie lo avesse sostenuto, se lo avesse difeso indipendentemente dal fatto che egli fosse innocente o colpevole. Come naturale riferimento cinematografico di questo necessario rapporto di complicità fra marito e moglie si rimanda ai personaggi del film "Mystic River" (2003) interpretati da Sean Penn e da Laura Linney.

"Under Suspicion" ha anche il merito di evidenziare come oggi, grazie alla tecnologia, i nostri piccoli vizi privati lascino una traccia rilevabile da parte degli organi inquirenti. Un indubbio progresso tecnologico, che però non comporta nessun progresso nello svolgimento delle indagini. Infatti nel film i dati forniti dal Provider di Hearst, le registrazioni, le fotografie e le videoregistrazioni, non assurgono al rango di mezzi conoscitivi di accertamento della verità, ma restano circoscritti a strumento di manipolazione a favore della tesi avanzata dagli inquirenti.
È assai interessante il primo piano di Gene Hackman, inquadrato dalla telecamera digitale nella sala degli interrogatori, mentre sta rilasciando la falsa confessione. Metafora della tecnologia che, se adoperata in modo distorto, offre solo un'immagine piatta e menzognera, che non può in nessun modo scavare sotto il velo della superficie. È anche metafora stessa dell'indagine: essa anziché far luce sulla verità, crea un'immagine che è solo rappresentazione di quella verità che è stata stabilità da chi sta dietro alla telecamera. L'immagine si trasforma così in un film diretto dal poliziotto inquirente. Quando l'indagine è conclusa la telecamera viene spenta lasciando uno schermo nero. Non è luce che viene gettata sulla verità, è la rappresentazione della menzogna che viene spenta. Per dirla con le parole di Kafka:

"È cosa ben triste: della menzogna si fa realtà universale!".

Hearst, di fronte ad una verità, che non è emersa per merito dell'indagine, ma che è evidente ed inconfutabile, viene scagionato da qualsiasi accusa e rilasciato. Ma la menzogna ha comunque prodotto il proprio effetto, che continua a gravare sull'uomo come un'ombra, una macchia di cui non potrà mai liberarsi. Ormai la sua maschera sociale è caduta, la sua vita è stata stuprata, nessuno gli ha attestato né amicizia né fiducia, né solidarietà. Egli è un uomo completamente solo.

Gli attori sono tutti di ottimo livello. Ineccepibili Gene Hackman e Morgan Freeman che ci regalano interpretazioni eccellenti e ben misurate. Sono decisamente loro due a riscattare i molteplici difetti, che scaturiscono dalla riscrittura della sceneggiatura originale, e quell'appesantimento derivante dai nuovi e più moderni dialoghi.
Thomas Jane non brilla per capacità espressive, ma riesce comunque a rendere bene il personaggio di Owens, trasmettendo al pubblico tutta la sua arroganza, la sua stupidità e il suo delirio di onnipotenza (sembra che egli si reputi detentore della verità assoluta oltre che poliziotto onesto ed integerrimo, pubblico ministero, giudice, carnefice e giustiziere). Benché egli sia su tutt'altro piano e sia facilitato dalla piattezza del ruolo interpretato, riesce a reggere il confronto con i due mostri sacri del cinema contemporaneo.
Dissociandosi anche dalle opinioni comuni, si reputa di buon livello anche l'interpretazione di Monica Bellucci, cui però si deve imputare una grave pecca: ha voluto doppiarsi da sola. Benché ella non manchi di capacità espressiva, difetta completamente d'impostazione vocale.
Come ha scritto un noto critico cinematografico: "Non è un bel sentire".

La regia di Stephen Hopkins non è affatto esente da difetti.
Innanzitutto egli sembra non essersi minimamente curato di dirigere gli attori, ma trovandosi a lavorare con un cast di altissimo livello, tale carenza è talmente mitigata da notarsi appena, e proprio nella recitazione degli interpreti meno navigati.
Sono anche poco apprezzabili tutte quelle riprese accelerate o a scatti, che sembrano trasformare il film in un videoclip.
La sua regia inoltre si discosta completamente da quella di Claude Miller, che aveva deciso di dirigere quasi tutto il film in un'unica pièce, trasmettendo ansia, claustrofobia, disperazione, un clima degno di una sala delle torture. Hopkins, infatti, ricorre ad un continuo uso di flashback spezzando così la tensione e facendo scemare nel nulla quel clima cupo, pesante, malato e pessimista che lo spettatore può trovare in "Garde à Vue".

Tuttavia è apprezzabile la scelta di regia adottata durante i flashback. In essi compaiono i personaggi che si trovano nella stanza dell'interrogatorio, interagendo nei dialoghi in tempo reale. Questa sovrapposizione di piani temporali e fisici è estremamente funzionale all'esaltazione di tutti quei vizi istruttori di cui abbiamo parlato e che sono così ben denunciati da questa pellicola. Essa consente anche di trasformare l'interrogatorio in un processo vero e proprio, senza avvocati né giurati.

Concludendo, si può affermare che "Under Suspicion" sia un remake di cui non si sentiva troppo il bisogno. Ciononostante è un film di discreta fattura, un solido dramma giudiziario (o pre-giudiziaro) e una buona denuncia contro i vizi dell'attività istruttoria. Meriterebbe di essere visto anche solo per l'eccellente faccia a faccia dei due attori protagonisti. Tuttavia si caldeggia la visione di "Garde à Vue", assolutamente una pellicola di tutt'altra classe e di tutt'altro livello.


*1 A chi fosse interessato al fenomeno relativo alla formazione di una testimonianza che non solo nulla aggiunge a quanto gli inquirenti conoscono già, ma addirittura arriva a mutuare quegli stessi errori empirici (come ad esempio il fatto di spostare la tenda, mai esistita, di una finestra) commessi dai magistrati inquirenti durante le domande rivolte al teste, si suggerisce la lettura della trascrizione della videoregistrazione del più celebre interrogatorio cui fu sottoposta Gabriella Alletto durante le indagini per l'omicidio di Marta Russo.

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 13/04/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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