Recensione un perfetto gentiluomo regia di Shari Springer Berman, Robert Pulcini USA 2011
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Recensione un perfetto gentiluomo (2011)

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locandina del film UN PERFETTO GENTILUOMO

Immagine tratta dal film UN PERFETTO GENTILUOMO

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"Un gentiluomo e i suoi impulsi devono vivere in perenne compromesso".

Louis Ives (Paul Dano) è un giovane letterato che è vittima di una crisi della propria identità sessuale e che immagina la propria vita come se fosse il protagonista di un romanzo di F. Scott Fitzgerald. Henry Harrison (Kevin Kline) è un commediografo squattrinato e un distinto gentiluomo d'altri tempi che vive di espedienti e che fa il gigolò per attempate e ricche signore non per guadagnare, ma per vivere ai livelli di una classe sociale che non gli appartiene più. Louis, dopo un imbarazzante incidente che provoca il suo licenziamento, si reca a New York alla riscoperta di se stesso e con l'intenzione di diventare uno scrittore. Qui conosce Henry Harrison che per sbarcare il lunario è costretto a subaffittare il proprio appartamento. Il rapporto che si instaura fra i due corre sul binario della dialettica discepolo/maestro propria del roman d'apprentissage.

La commedia sofisticata non è un genere facile da realizzare. Le grandi major americane, infatti, sembrano aver abbandonato tale genere opzionando e producendo soggetti che narrano storie grossolane e di facile attrattiva per il pubblico. E così, come spesso accade, è il cinema indipendente ad accettare la sfida che le grandi produzioni rifuggono. Questo è il caso di "The Extra Man" che è stato tradotto in italiano col titolo discutibile di "Un Perfetto Gentiluomo".

Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Ames che appare anche in veste di sceneggiatore insieme con Robert Pulcini e Shari Springer Berman, i due registi della pellicola reduci dal grande successo riscosso con "Il Diario di una Tata" ("Nanny Diaries", 2007). Abbiamo affermato che si tratta di cinema indipendente, ma sempre nelle dimensioni dell'industria cinematografica americana.
L'indipendenza in questione non significa esattamente film a basso costo, ma libertà dai vincoli imposti dalle case di distribuzione. Purtroppo però, è la distribuzione ancor prima della qualità di una pellicola a decretarne il successo. E in questo si deve constatare che gli Stati Uniti non versano in condizioni particolarmente migliori rispetto all'Europa in generale e all'Italia in particolare. Infatti, "Il Diario di una Tata", che vantava un budget di circa 20 milioni di dollari, non solo era prodotto dai fratelli Weinstein, ma era distribuito anche dalla Paramount Pictures e dalla Metro-Goldwyn-Mayer oltre che dalla stessa The Weinstein Company. Così, il film fu distribuito in oltre 2600 sale americane e incassò circa 50 milioni di dollari. Purtroppo, questo supporto non c'è stato per "The Extra Man" che, costato circa 7 milioni di dollari, è stato distribuito nel primo fine settimana in un numero esiguo di sale americane incassando poco più di 18 mila dollari e raggiungendo poi un incasso totale inferiore a mezzo milione di dollari. Incasso che ha decretato il flop più completo di questa pellicola.

Indipendentemente dagli esiti del botteghino americano, andiamo adesso ad analizzare questo film.

Gli autori, come accennato, si sono cimentati con un genere affascinante, ma difficile. Un genere, lo dimostrano i dati del botteghino, che negli Stati Uniti raramente riscuote consenso di pubblico. Le commedie americane, infatti, o sono pregne di una comicità volgare e di grana grossa o in Patria non guadagnano molto, neppure quelle di carattere sentimentale, che però, se sono ben strutturate, incassano moltissimo su scala globale. Questo fatto, oltre all'assoluta mancanza di fiducia dei produttori sul possibile successo cinematografico di una commedia sofisticata, lo aveva già sperimentato negli anni settanta il maestro Blake Edwards, che a causa degli scontri con i produttori, che imponevano ai suoi film contenuti che geli rifiutava e che puntualmente decretavano l'insuccesso della pellicola, si auto esiliò in Europa dove conobbe una nuova età dell'oro.

Le idee di base di "The Extra Man" sono buone e in certa misura non convenzionali. Gli autori riprendono gli elementi costitutivi della cosiddetta screwball comedy scomponendoli e reinterpretandoli a piacere. Abbiamo il conflitto di classe, le morali opposte, la guerra fra i sessi, il gusto per il grottesco e per il bizzarro, l'anormalità che assurge a modello e il travestimento sia sociale sia fisico, che trova la sua summa nella devianza del protagonista.
Tuttavia, c'è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il film parte in grande stile, con un ritmo narrativo favoloso e una progressiva caratterizzazione dei personaggi che sembrerebbe assai accurata. Fin dal principio, però, compaiono alcuni elementi che non trovano la loro giusta collocazione, delle improvvise sbandate narrative che creano situazioni che sembrano essere appiccicate con lo scotch all'asse narrativo portante. Per esempio la scena del leone pupazzo che due burloni lanciano dalla finestra contro l'auto del protagonista, provocandogli una mezza crisi isterica, è fine a se stessa, non diverte e, malgrado abbia il fine ultimo di ingenerare il cedimento dell'eroe evidenziando le sue debolezze, rimane un qualcosa di avulso dal contesto e che gli autori avrebbero potuto omettere, se non altro, per sobrietà narrativa. Lo stesso gusto per l'anormalità non è mai pungente e resta un qualcosa di sfuggente che non si integra con la trama narrata e che non coinvolge lo spettatore, anzi tende a limitarne la partecipazione e l'empatia ricordandogli che egli non fa parte del film e che è seduto in un cinema per assistere ad una storia raccontata da terzi. Il problema di fondo non si concretizza negli elementi costitutivi della storia, che, come accennato, sono intelligenti, non banali e atti a ingenerare sia divertimento sia riflessione. Il problema di fondo si concretizza in una sceneggiatura che parte da un soggetto brillante e curioso, ma non è capace di conservarne le promesse e il mordente narrativo. I dialoghi, tranne poche eccezioni, sono banali, piatti e non presentano quell'acume sarcastico e sferzante che ci si aspetterebbe per esempio da un personaggio come Harrison. In altre parole, benché la descrizione dei due personaggi principali sia piuttosto accurata, i dialoghi che vengono loro attribuiti non corrispondono al personaggio stesso.

Questi dialoghi, poi, difettano di sagacia e di quell'umorismo frizzante e intelligente tipico tanto della commedia sofisticata quanto della citata screwball comedy. E così l'efficace progressione narrativa con cui il film si apre va lentamente a scemare. Il film perde di coesione, smorza la curiosità dello spettatore e scivola nel tedio. A tutto ciò si accompagna una regia monocorde, formalmente corretta, ma priva di qualsiasi guizzo creativo. Tutti i dialoghi si risolvono con un continuo campo e controcampo che non solo stanca, ma annoia. La maggior parte delle inquadrature è fissa e privilegia il piano medio alternato a qualche primo piano e a rare inquadrature a figura intera. Insomma una regia noiosa, rigorosamente formale, ma mai del tutto funzionale per una migliore narrazione della storia e priva di eleganza.

Anche l'approfondimento psicologico dei personaggi da un momento in poi va perdendosi divenendo sfuggente e tutt'altro che incisivo. Per esempio il complesso edipico di Louis, che si incarna nel feticcio rappresentato dall'auto paterna, resta alla fine un qualcosa di evanescente. Altrettanto può dirsi della malinconica nostalgia che Harrison nutre per la propria giovinezza e che si incarna nella sua ossessione per la Russia e per quel miraggio di un alto tenore di vita a basso costo rappresentato dalla più volte citata bottiglia di champagne da quattro dollari. Labile è anche il rapporto che lega Harrison a Gershon (John C. Reilly), personaggio che si trasforma in macchietta.
Inoltre, il film al principio sembra camminare lungo quel sottile confine che separa la realtà dall'apparenza, ma anche questa è una falsa traccia. E non può non restare deluso lo spettatore che, aspettandosi un intelligente e raffinato gioco narrativo in cui ogni personaggio sia differente da come appare e in cui la natura di ogni situazione sia fittizia e pronta a rivelare la sua vera essenza da un momento all'altro, scopre che invece tutto è come sembra, senza ribaltamenti narrativi, senza sorprese né colpi di scena. Una linearità sconcertante che inficia la natura stessa del film così ben caratterizzata dall'ambiguità che affligge il suo protagonista. Anche la conflittualità costante e la ricerca di un compromesso, sottolineate dalla voce narrante all'inizio del film, vengono meno deludendo ancora una volta lo spettatore che attenderà una svolta narrativa che non arriverà mai.
Oltretutto, la struttura del romanzo di formazione dopo un po' scema nel nulla, così come la dialettica che si era instaurata inizialmente fra Harrison e Louis. Lo schema è ripreso nelle battute finali, ma ormai ha perso qualsiasi forza e qualsiasi stimolo.

Il personaggio di Mary (Katie Holmes) è descritto con estrema superficialità ed è piuttosto raffazzonato. È un cliché obsoleto che a conti fatti non ha quasi nessuna incidenza nella storia narrata. E la stessa interpretazione della Holmes contribuisce a sottrarre spessore e utilità a un personaggio mal scritto e mal descritto. Tuttavia, sarebbe ingiusto incolpare l'attrice del proprio spaesamento di cui è forse più responsabile una regia incapace di dirigere gli attori che, per quanto bravi, sembrano essere abbandonati a loro stessi. È molto bravo Kevin Kline, ma si concede un'interpretazione autocitazionista che rievoca alcuni suoi personaggi del passato. Bravo anche Paul Dano, ma mai incisivo come dovrebbe essere. Con i suoi attributi caricaturali e la sua voce stridula il pur bravo John C. Reilly si trasforma in una caricatura che ricorda, fra l'altro, alcune pellicole dei fratelli Coen.

"The Extra Man" è una pellicola dalla buone intenzioni, ricca di ingredienti originali e interessanti, ma con uno sviluppo narrativo fallace, che non raggiunge gli obiettivi prefissati e che non mantiene le promesse formulate. Il livello artistico della regia è molto basso, addirittura mediocre, e contribuisce a rendere sconclusionata una sceneggiatura che già di per sé difetta di solidità e di compattezza narrative. Non per nulla quattro delle sei mani che hanno scritto il film sono le stesse che lo hanno anche realizzato.
Lo scarso profilo artistico è parzialmente riscattato dalle interpretazioni di Kevin Kline e di Paul Dano, che, pur non essendo memorabili, sono comunque prestazioni di alto livello. Come abbiamo detto, invece, è mediocre e spaesata l'interpretazione di Katie Holmes che si trova a essere di gran lunga surclassata da quella di Lauren Weisman, la studentessa dallo slip rosso, che in pochi secondi di presenza scenica regala allo spettatore un personaggio di contorno più incisivo di quello di Mary.

Questa pellicola conferma le paure delle major americane che sanno quanto sia difficile e scivoloso il terreno della commedia sofisticata e che sono consapevoli che autori del calibro di Howard Hawks e di Billy Wilder non si trovano dietro l'angolo. Per quanto l'enorme fiasco commerciale non sia del tutto meritato, al tempo stesso non suscita nessuna meraviglia. E se è anche vero che pellicole peggiori di questa riscuotono maggior successo di pubblico, non se ne possono biasimare gli autori né i produttori, perché loro, almeno, hanno saputo dare allo spettatore ciò che chiedeva.
È evidente, invece, che Shari Springer Berman e Robert Pulcini si sono cimentati in una sfida che andava oltre le loro capacità professionali e artistiche dando scaturigine a un prodotto che da un lato si lascia guardare, ma che dall'altro non raggiunge nessuno degli obiettivi prefissati e lascia insoddisfatti.
È un peccato perché il soggetto di "The Extra Man" aveva un grandissimo potenziale che, forse, in mani più esperte avrebbe potuto avere uno sviluppo degno di una vera commedia sofisticata, regalando al pubblico un film delizioso, intelligente e difficile da dimenticare.
Quello che resta, invece, è l'immagine dei piccioni che beccano i chicchi di riso sul marciapiede e la voce fuoricampo che esprime lo stesso pensiero e la medesima perplessità dello spettatore:

"Allora, eccoci qua! Ma dove siamo?"

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 26/05/2011 14.31.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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