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Michele Placido, coadiuvato dall'attore protagonista Kim Rossi Stuart in qualità di co-sceneggiatore, si rimette alla regia per un'altra storia nera dell'Italia degli ultimi trenta-quarant'anni dopo "Prima linea" e "Romanzo criminale". Stavolta si tratta dell'autobiografia di Renato Vallanzasca (detto il bel René per l'aspetto gradevole), bandito milanese che spadroneggiò intorno alla metà degli anni Settanta, conquistando contemporaneamente i cuori di centinaia di casalinghe frustrate attratte dalla perversione del male.
Il vero bandito Renato Vallanzasca nasce a Milano nel 1950. A otto anni finisce al minorile per aver tentato di liberare una tigre dalla gabbia di uno zoo ed è per questo affidato a una zia che vive al Giambellino, il quartiere reso noto da Gaber per le imprese criminose del Cerruti Gino.
Ben presto il ragazzo si farà strada nella mala milanese detta "ligèra", tanto da arrivare a contrapporsi al boss dei boss di Milano, Francis Turatello.
Il suo exploit criminoso, che lo vede protagonista di efferate rapine spesso conclusesi con l'assassinio di tutori dell'ordine, si ha a metà anni Settanta, in pieni anni di piombo, periodo particolarmente "caldo" che contrappone banditi e terroristi egualmente impegnati a creare un clima di angoscia unitamente alla crisi economica e ai movimenti operaio e studentesco.
Le sue gesta criminose vanno quindi contestualizzate nel particolare momento storico vissuto dall'Italia, forse per molti una definitiva uscita di scena degli anni del boom, un abbandono deciso al dopoguerra, pur a un trentennio dalla conclusione del secondo conflitto mondiale.
Chiuso con la ricostruzione, chiuso con la necessità di rimboccarsi le maniche, si passa alla voglia di affermazione delle proprie idee per quanto sbagliate o controverse e quindi con episodi di rottura. Il delinquere viene quasi visto come un atto rivoluzionario e da qui si spiega l'ascendente che Vallanzasca ha esercitato su molti, in particolare giovani donne in cerca di mordente non ancora tentate dall'altro grande movimento del tempo, quello femminista.
Placido fa raccontare allo stesso protagonista la sua storia, partendo dal 1981 quando il bandito si trova in regime carcerario duro ad Ariano Irpino: la voce fuori campo mostra le bravate di Renato bambino ed adolescente con in mente "Quei bravi ragazzi" di Scorsese: Renato è sempre in gruppo, attorniato dai suoi sodali che continueranno a seguirlo fedelmente in età adulta.
Il gruppo di compari è compatto attorno alla figura carismatica di Vallanzasca, ma emerge una anima più nera delle altre, Enzo (un intenso Filippo Timi), che si contrappone a Renato per mancanza di nervi saldi e di forza di carattere.
Vallanzasca si distingue per la sua fredda lucidità e per il suo beffardo sarcasmo: ogni sua azione criminosa è compiuta scientemente, senza tralasciare il minimo dettaglio. Non si può parlare di apologia di reato perché la puntuale sequenza di crimini, documentata quasi con taglio da video clip con sequenze accelerate e una colonna sonora di peso composta dai Negramaro, lascia attoniti e sgomenti. Molte scene del film ci ricordano le medesime di pellicole contemporanee ai fatti narrati, quelle appartenenti al genere "poliziottesco", dove l'eterna lotta tra guardie e ladri si trasforma in terrore:rapina in banca, fuga col malloppo e sparatoria con la "madama", seguita dai relativi cadaveri (tra l'altro all'epoca dei fatti un onesto artigiano del mondo di celluloide portò sugli schermi un "La banda Vallanzasca", ispirato molto alla lontana alle gesta del celebre bandito).
Nel film di Placido manca un'analisi accurata dei fatti, che pure sono presentati ineccepibilmente sul piano storico (l'attore indossa gli stessi indumenti del vero Renato in alcune scene). I delitti sono presentati in successione rapida, il gruppo e la stessa protagonista femminile, Valeria Solarino, si perdono schiacciati dalla figura del protagonista principale, al quale si consegnano.
Carente qualsiasi approfondimento sui personaggi che via via Renato incontra o affronta: i genitori (cameo di Gerardo Amato, fratello del regista e sempre più somigliante nel ruolo del padre) sono due figure quasi caricaturali, vicine per retorica all'immagine del "vecchio genitor" (per dirla con Verdi) della classica sceneggiata napoletana. Anche la figura di Francis Turatello, prima antagonista poi alleato di Vallanzasca (buona l'interpretazione del giovane Francesco Scianna protagonista di "Baàrìa") non è sufficientemente tratteggiata: di lui Placido ci dice che è stato un boss, mostra la sua tragica morte in carcere, ma mantiene riserbo su molti episodi della sua vita criminosa, riducendo il rapporto con Vallanzasca a una insipida storia amici-nemici forse un po' copiata da alcune scene de "Gli intoccabili".
L'interpretazione di Kim Rossi Stuart è viceversa grandiosa: l'attore applica sapientemente il metodo dell'identificazione con il suo personaggio, sfoggiando una buona cadenza milanese (anche se a tratti il suo accento scade un po' nella caricatura, almeno per orecchie più esperte), regge la storia per tutta la sua durata, trasformandosi nell'epigono dell'ottimo Vincent Cassel di "Nemico pubblico n. 1". I due film si reggono sui loro interpreti principali e mostrano le loro nefandezze in maniera cronachistica, senza azzardare un giudizio morale o un'analisi sociologica e, malgrado l'assenza di un intento apologetico, sembrano quasi assolvere gli autori di tali gesta, trincerandosi dietro un libero arbitrio o un destino (a seconda dell'interpretazione di chi guarda).
Musica e scene veloci contribuiscono a dare allo spettatore una giusta dose di angoscia che sfocia nella catarsi finale a conclusione della pellicola: Vallanzasca si definisce uno con "un lato oscuro più pronunciato" autoassolvendosi dai suoi peccati e autorizzando chi lo guarda a giustificarlo.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 04/02/2011 16.05.00
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