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Il primo fotogramma mostra un ragazzo che ispeziona i fondali marini. A ridosso di quest'immagine così naturale e suggestiva, si vede una donna anziana in un camposanto che va a visitare la lapide della figlia prematuramente scomparsa. La donna si sdraia supina sulla tomba, e in un primo istante si pensa al cliché tipico della Sicilia affine al culto della morte et similia, salvo sapere, successivamente, che la donna è di origini albanesi.
Esiste naturalmente un epilogo finale un poco triste e tuttavia quasi enfatizzato dall'assurdo nonsense della vicenda, tanto realistica quanto innaturale o perlomeno insolita.
E tra i titoli di coda Emma Dante, al suo esordio cinematografico, si concede un piano-sequenza eterno e inesorabile, quasi fosse un vezzo narcisista di un'autrice che sa fin troppo bene farsi notare; però è tanto facile codificarlo come un tributo contemporaneo a Pirandello e alla Commedia dell'Arte.
Ciò che colpisce è la ventata di novità di una nuova commedia all'italiana che sa trasferire vizi e virtù della nostra penisola in un contesto satirico insieme antico e moderno, come se il cinema di Pietro Germi ai giorni nostri dovesse forzare la mano nella caricatura grottesca, e animalesca, di certi memorabili momenti di Ciprì e Maresco.
Un cinema di estinzione che si cala perfettamente nella sua lugubre e assordante verità.
Ricordate il campano "Intervallo" di un anno fa? E' ancora una volta un percorso che scopre il luogo della memoria primordiale (vedi il personaggio di Rosa interpretato proprio da Emma Dante, siciliana trapiantata nel Nord Italia), lo spazio urbano come fenomenologia di esistenze influite nel loro stesso habitat.
C'è una strana suggestione negli agglomerati urbani più squallidi e remoti, nelle degradanti dimensioni di periferie oltre i confini della città, un esilio estinto, finalmente valorizzato, di recinti, bivi, vicoli e strade senza uscita, ghetti urbani e anonimi, con il supporto verbale e vocale di quella gente che sa di doversi conquistare a tutti i costi il proprio esiguo spazio. Ma la mdp non scruta mai gli interni, come accade nel Leone d'Oro di Venezia "Sacro GRA", bensì affina una diversa dimensione esterna, mettendo in risalto le barriere monolitiche degli spazi.
Il vicolo, o "budello" della zona Fuera di Palermo, è come il corpo mutilato di una persona, che conduce a un baratro dove la vita può chiudersi definitivamente o non può esistere una fine diversa dalla morte (nel contesto dello spazio urbano strettamente circoscritto).
E' un esperimento che ha tentato di fare anche l'ultimo Amos Gitai, salvo costringere lo spettatore a provare un minimo di interesse per un reportage blandamente mascherato da fiction documentata.
Ma è un po' come trovarsi davanti alle sconcertanti riflessioni dei condomini di Rosi - "da qui si ha una bella vista" - oppure tentare di scavalcare quel muro di cinta che separa la vita dei due ragazzi nel bel film di Saverio Costanzo "La solitudine dei numeri primi". E magari proprio in quel discusso piano-sequenza finale Emma Dante trova il modo di liberare - o annientare definitivamente - i personaggi chiusi in un quel recinto che dà il nome al suo film.
Colpisce positivamente questo strano gioco al massacro tra due automobili di direzioni opposte, questo duello contrapposto tra Samira (Elena Cotta) e Rosa (con Clara), girato come un esilarante tributo a Sergio Leone e agli spaghetti western, questa carrellata di sguardi che trovano nella meschinità o nella tenacia un supporto tangibile sostenuto sia dall'umanità che (soprattutto) dal peggior opportunismo.
E non è molto vero che, in questa fauna chiassosa e individualista, tutto l'universo maschile si dimostri ancora più abbietto e degradante dei personaggi femminili. Il giovane Nicolò di Dario Casarolo, per fare un nome, è un personaggio positivo, lontano dalla modestia degli adulti, e lo dimostra il commovente rapporto affettivo che ha con Samira e il timido tentativo di seduzione nei riguardi di Clara alias Alba Rohrwacher, compagna di Rosa. Ma non a caso un altro personaggio, quello del guappo di quartiere (Giuseppe Tantillo nei panni di Salvatore) mostra parecchi punti di contatto con Richetto il Baro impersonato da Domenico Modugno nell'indimenticabile "Lo scopone scientifico" di Luigi Comencini.
Alla fine "Via Castellana Bandiera", al di là di certe forzature e qualche stereotipo di troppo, riesce a centrare il bersaglio, e a porsi come intrigante alternativa al nuovo corso della commedia all'italiana.
Lo stesso mondo di Samira - per inciso, una straordinaria Elena Cotta premiata con la Coppa Volpi al festival di Venezia - sembra un vortice mentale dove tutto, resistenza ed esistenza, diventa strumento ai fini di un racket popolare ai danni della povera donna.
La città è attraversata da una specie di immagine estinta, dove il codice anche lucroso della proprietà prende sopravvento, mentre vacilla quell'empatia morale, mentre gli sguardi complici si sfaldano in una lotta senza risposte.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 07/11/2013 17.30.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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