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"May your faith give us faith, may your hope give us hope, may your love, give us love"
-Bruce Springsteen, cfr. "Into the fire" from the album "The Rising"-
Scriveva il giallista francese Jean-Claude Izzo nel suo "Casino totale": «le albe non sono che l'illusione della bellezza del mondo. Quando il mondo riapre gli occhi la realtà riprende i suoi diritti». Parlava della "sua" Marsiglia, non di New York, ma suppongo che un concetto del genere sia condivisibile nei confronti dell'11 Settembre 2001, e di quella "alba ordinaria" spezzata ben presto da qualcosa di terrificante e inaspettato.
L'inizio è sconvolgente, non perché "ci appartenga" ma perché in ogni caso ci riguarda da vicino. Immaginate cosa significhi essere davanti a quella routine quotidiana: qualcuno si sveglia presto per la ronda, i primi metrò e autobus che cominciano ad affollarsi, la prima "fauna" di gente che incombe su una città apparentemente come tante altre, ma che non è e non sarà mai "come tante altre". Oliver Stone però ha fretta di oscurare l'effetto antecedente - bellissimo - alla tragedia del World Trade Center e rivolgere "altrove" il suo sguardo.
L'ombra minacciosa dell'aereo che oscura il sole di Manhattan ci fa sperare bene (ricorda quasi un cult ingiustamente dimenticato come "Black Sunday" di Frankenheimer, che guardacaso tratta temi simili) ma poi qualcosa si inceppa, non funziona, o siamo noi a non riconoscerlo. E proprio come le rovine delle Twin Towers distrutte e crollate sotto il peso dell'enorme impatto con gli aerei, WTC finisce letteralmente in macerie in quello che diverrà noto come Ground-Zero.
Artisticamente, un fallimento totale, e per vari motivi. Prima di tutto, se l'opera(zione) di Stone è un disastro, lo è anche la morte di un certo tipo di fare cinema, in quanto la realtà (forse da quel giorno) è diventata uno script mediaticamente più appassionante di qualsiasi altro film del genere.
Sarebbe forse il caso di prendere in considerazione la (magari risibile) provocazione di Karlheinz Stockhausen, che affermò senza mezzi termini, e certamente con un gusto del paradosso piuttosto macabro, che "l'11 Settembre è stata la più grande opera d'arte mai realizzata".
Tristissimo, ma purtroppo (quasi) vero.
L'Oliver Stone che conosciamo non esiste più, e non è che alle ultime opere del regista non si possa rinunciare (salvo a detta di molti il film-inchiesta su Fidel Castro). A ben pensarci, l'unico suo film stilisticamente quasi perfetto è stato proprio quello che oggi è praticamente dimenticato: "Salvador".
Ok, ha toccato "una ferita ancora aperta" sul caso JFK, ma era forse necessario indugiare sul senso di colpa degli americani?
Ha affrontato il buon cinema bellico, soprattutto con "Platoon".
Ha tentato di mettere il dito nella piaga con "Natural Born Killers" che resta un film di una forza iconoclasta davvero unica, ma non pago di arrendersi al qualunquismo spicciolo e reazionario di dirci "che i veri assassini sono gli emuli tra la gente comune" (grazie tante all'obiettività).
Ma Stone è stato, ed è ancora, come dimostrano i primi 10 minuti di WTC, un grande regista di immagini, una macchina spettacolare perfetta per raccontare gli States senza trasformarsi in un paranoico progressista o un tedioso conservatore.
L'ideologia non è necessaria, ma a quanto pare è un obiettivo primario se si vuole chiamare in causa la "politica" (perché TUTTO è politica) degli affetti familiari e la familiarità con certi dogmi davanti a cui l'America peggiore sembra incapace di accettare, di condividere e di mettere in discussione se stessa con il resto dell'universo.
"WTC" nasce come "omaggio alle vittime dell'attentato delle Twin Towers", ma solo apparentemente. In realtà è un giocattolone egoista e autoindulgente, che parla "solo" agli americani dimenticando che quel giorno ha cambiato un po' le nostre vite, la nostra visione del mondo, la nostra "ignobile" e fatalista illusione di pace.
Un film che dimentica che lo spettatore è lo stesso che ha sentito il cuore bruciarsi davanti alle dichiarazioni di quei sopravvissuti che raccontavano le ultime ore di vita dei colleghi di lavoro, e quel terribile incubo di tanti individui che si buttavano dalle finestre per non essere "divorati dal fuoco", in quella sorta di trappola mortale che è (architettonicamente) un grattacielo in una situazione di estremo pericolo. Il grande Evento Cinematografico ha tentato invano di superare l'Evento Mediatico, presentandosi come un indigesto incrocio tra un "Titanic" di serie C, un (brutto e retorico) film bellico e un'ordinaria fiction tv da prima serata.
Probabilmente è un film "sincero", ma di una sincerità che non sentiamo nostra. Non era necessario rievocare la teoria dei complotti, del doppiogiochismo di Bush, la CIA etc... e tutte le verità scomode che da anni gettano una luce oscura sull'avvenimento, ma quantomeno irridere al comportamento di un presidente Usa che continua tranquillamente la sua favola in una scuola mentre era già stato avvisato di quanto stava accadendo.
E a dirla tutta, è l'unico film che preserva una realtà a cui non crede più nessuno, soprattutto riguardante il misterioso (?) velivolo che ha attaccato il Pentagono.
In verità, i tristi ricordi giocano un brutto scherzo a Stone, che decide di soffermarsi su un'insopportabile galleria di luoghi comuni sul mito (americano?) del coraggio e della lealtà, su scampoli di idealismo ("voi siete la nostra missione", "se non muori tu non muoio neanch'io") degni di un John Wayne, compresa la necessità di comprendere che "attraverso la disgrazia si incontrano uomini che si aiutano tra di loro".
Non è affatto una rivelazione, ma guardacaso è uno dei pregi/difetti maggiori che riscontri quando parli della guerra.I dialoghi del film infatti sono tutti incentrati sul concetto di Bush (condivisibile o meno che sia) di un Paese in Guerra ("dove siamo? All'inferno").
La scelta di Stone di soffermarsi sull'odissea di due poliziotti, John McLaughin (un Cage tutto sommato convincente) e Will Jimeno, estrapolati dalle macerie solo dopo molte ore, è altresì ammirevole, per quanto il ritmo del film non riesca mai ad emozionare veramente, anzi costringendo lo spettatore a condividere, oltre ai valori di una Patria che non è la sua (ripeto: era l'Occidente, non l'America, ad aver subito un massacro...), e a positivizzare l'aspetto drammatico di tutta la vicenda, il regista offende la sensibilità dei migliaia di morti di cui per scelta non parla.
Non a caso il film cita una frase del peggior Ridley Scott di sempre cfr. "Soldato Jane" - non proprio un emblema di democraticità - e cioè "il dolore è vostro amico". L'idealismo di Stone, con la sua indigesta retorica, non è comunque facilmente etichettabile come "sciocca apologia sciovinista", sembra costringere il mondo (o i newyorkesi?) ad attendere col Santino in mano i due coraggiosi eroi sopravvissuti, ed è questa, probabilmente, la cosa più imbarazzante di tutto il film.
Nonostante le viscere del dolore (le macerie delle Twin Towers con i suoi bracieri di fuoco) restituiscano al film una pur vaga efficacia visiva ed emotiva, l'impressione è che la "salvezza" di John e Will non solo prevalga sui tragici lutti di tutti gli altri, ma che sia una credibile, sufficiente fonte di sollievo.
Non pago, la banalità con cui descrive l'apologia della famiglia è sorprendente: è come se questa ricattasse i nostri valori (certo, anche i nostri) intoccabili, in un mondo che sembra respingere la nobile causa della forza dell'amore atta a consacrare la salvezza da ogni disastro umano e tecnologico ("è l'amore per te che mi ha tenuto in vita" sic).
A un certo punto, a metà del film, prevale il silenzio: sembra che John stia perendo, ma non è così.
Non dovrebbe offendere nessuno l'affermare che l'immagine di un Cristo munito di una bottiglietta d'acqua sia indecorosa anche per chi non è estremamente credente, figuriamoci per gli altri... Da qui si sconfina nel ridicolo, nel retrivo, nel cattivo gusto: non perché sia improponibile un discorso anche religioso (sarebbe anzi legittimo) davanti a una situazione del genere, ma perché è inaccettabile che Stone pretenda di raffigurare la dimensione umana di una "visione", ovvero la più privata e intima interpretazione della Cristianità.
Poteva anche erudirci sul cambiamento di New York dopo la strage, senza limitarsi a immortalare per pochi secondi autobus vuoti e strade deserte. Poteva spiegarci perché 8 milioni di abitanti che spesso non si conoscono improvvisamente riconoscono il servizio reso da un paramedico, che di solito (come del resto in ogni parte del mondo) è pagato male e trattato come un "comprimario" qualsiasi. Tutt'altro: probabilmente fiero di andare a nozze con coppie in crisi finalmente ritrovate, e un'aria da happy end francamente sconcertante (visto tutto ciò che è accaduto dopo, in conseguenza a quel terribile giorno) Stone ha soddisfatto il suo tronfio resoconto per la gioia - o la disperazione - degli spettatori.
Se si fosse chiamato "Black Hawk Dawn" avrei potuto arruolarmi nei Marines... ma naturalmente è una battuta!
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 13/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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