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Immerso nella cornice delle Alpi, un tanto elegante quanto silenzioso albergo ospita il famoso compositore e direttore d'orchestra Fred Ballinger (Michael Cane, "I figli degli uomini" e "Fuga per la vittoria") e il suo amico di vecchia data, il regista Mick Boyle (Harvey Keitel, "Smoke" e "Pulp fiction"), che passano in quel luogo isolato le vacanze di primavera. Ma non solo i loro dialoghi sono scena portante in questo rilassante teatro.
Attorno a loro danzano di volta in volta le storie che li accompagnano in un importante capitolo della loro vecchiaia. La figlia di Fred, Lena (Rachel Weisz, "Constantine" e "La mummia"), lasciata dal compagno e in conflitto col padre, l'attore da blockbuster Jimmy Tree (Paul Dano, "Dodici anni schiavo"), con alle spalle una carriera incentrata su un unico personaggio e in attesa di conoscere Miss Universo (Madalina Ghenea), in arrivo anche lei all'hotel, nonché partner del suo prossimo film, un emissario della Regina che tenta di convincere Fred a dirigere una sua composizione in occasione del compleanno del Principe, il grande calciatore Diego Armando Maradona coi problemi dovuti all'obesità, e la troupe di Mick concentrata alla stesura finale del suo ultimo lavoro, in attesa dell'arrivo della star, l'attrice Brenda Morel (Jane Fonda, "Sul lago dorato" e "Tornando a casa"), foriera di una decisione che scaturisce una serie di reazioni che porteranno cambiamenti considerevoli nella vita dei due amici, Fred e Mick.
La paura attorno al nuovo film di Sorrentino era una, riassumibile con un incrocio di titoli: vedere "La grande giovinezza". E a conti fatti, il dubbio di averlo visto rimane.
Seguendo l'antico adagio secondo il quale 'squadra che vince non si cambia' ecco infatti il fedelissimo Luca Bigazzi alla fotografia, che aveva realizzato due anni fa il suo capolavoro immortalando una Roma di felliniana memoria, e che segue il regista napoletano dal 2004 ("Le conseguenze dell'amore"). In "Youth - La giovinezza" si conferma sui livelli eccelsi a cui sta abituando il pubblico, iniziati in "This must be the place" e sublimati ne "La grande bellezza". Altro artefice delle gioie visive è il montatore (figura questa mai abbastanza considerata nella letteratura cinematografica), Cristiano Travaglioli, che ha iniziato il suo sodalizio con Sorrentino nel 2008 ("Il divo"). Vale per lui lo stesso discorso fatto per Bigazzi. Ed anzi qui sembra suo il lavoro più importante, perché il ritmo è decisamente meno cadenzato rispetto agli altri film, è più frammentario, a volte accelera (raramente), a volte decelera, e legare tra loro i vari duetti dialettici non è affatto semplice, poiché tutto si basa su questi continui dialoghi tra i personaggi. Un conto è il confronto padre - figlia e di ben altra natura è, ad esempio, quello regista - attrice. Ma dicevamo della paura di una grande bellezza parte seconda... Sorrentino è ormai magistrale nella costruzione di scene che sono dei quadri in movimento con la musica di sottofondo, è preciso, è puntuale, è pulito, non forza mai la mano col solo intento di stupire nel particolare ma sempre con quella di funzionare nel meccanismo per l'insieme. I dialoghi sono ancora un gradino sopra la media, ne restano in mente almeno quattro o cinque. Certo il cast in questo aiuta non poco. Michael Cane e Harvey Keitel potrebbero anche parlare della ricetta della carbonara e nessuno si metterebbe a controllare i messaggi su whatsapp in quei dieci minuti. Stesso dicasi per Rachel Weisz che diventa sempre più brava e ha un fascino indefinibile, pur con un viso i cui tratti sono decisamente lontani dalla perfezione, nel complesso è impossibile staccarle gli occhi di dosso.
Eppure la regia è in molti tratti un copia-incolla da "La grande bellezza", cosa che a questo punto alcuni potrebbero definire come suo 'marchio di fabbrica' (Tarantino ci ha costruito la carriera su un certo tipo di dialogo), ma attenzione: ripetere un archetipo che funziona non è facile, perché si rischia di fermentare e risultare banale. Non vorremmo, insomma, che Sorrentino diventasse prigioniero di se stesso. Al riguardo, un dato tecnico che ad esempio colpisce è questo: "Youth" dura poco meno di due ore ma pesano come fossero tre, il suo 'progenitore' ne durava quasi due e mezza ma scorreva come fossero una. Va bene l'argomento che richiede una diversa sensibilità, più riflessiva, ma la sensazione è che alcune scene siano di troppo. Non convince ad esempio quella della 'direzione'del concerto con le mucche, che pur essendo logica dal punto di vista di un Ballinger in pensione, è forse troppo risibile per lo spettatore (e qui c'è probabilmente l'unica traccia di una mano che ha forzato).
L'ultima critica è rivolta alle soluzioni finali. Per trovare spiegazione alle scelte (entrambe molto forti) dei due protagonisti, bisognerebbe cercare all'interno di ogni frase, di ogni sguardo, e non sarebbe lo stesso un esercizio facile, perché forse è proprio questo che il regista vuole ottenere. La vita non è mai lineare, ogni sofferenza, ogni perdita, produce reazioni diverse a seconda di chi le subisce, e giunti alla soglia degli ottanta anni molte convinzioni possono cadere in un batter d'occhio. Ciò però non evita allo spettatore medio di sentirsi spiazzato (magari quelli con più primavere alle spalle le trovano assolutamente naturali). "Youth - La giovinezza" è comunque un film riuscito e per questo merita una chiusura con due note positive.
La prima riguarda la scelta di mettere tra gli ospiti dell'albergo anche Diego Armando Maradona (interpretato da Roly Serrano). Molti ricorderanno le sue dediche dopo la vittoria alla notte degli Oscar, una delle quali era proprio rivolta, da buon tifoso partenopeo, al campione argentino. Alcuni criticarono quella scelta, alcuni che magari non avevano nemmeno visto il film e che sono soliti aprire bocca e dare fiato, e allora è bello pensare che Sorrentino abbia risposto loro in questo modo. Applausi. Applausi perché chi parla per parlare è sempre fastidioso, e applausi perché vedere Maradona palleggiare, anche quando si tratta di un sosia, è poesia in movimento.
L'ultima nota è per la scena del concerto in cui appare la bravissima soprano Sumi Jo (nella parte di se stessa), che compare per la prima volta in un film, nonostante avevamo già sentito la sua voce in "Mangia prega ama", "La nona porta" e "Paradise". Se il finale è visivamente molto bello, parte del merito è anche suo che riempie l'inquadratura da attrice consumata. D'altronde venticinque anni di carriera non sono un caso.
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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 03/06/2015 12.07.00
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