Tutti i post di Paola Gianderico
Sulla carta
Paris-Manhattan, esordio della regista francese Sophie Lellouche, lasciava prefigurare una versione capovolta di
Io e Annie, in cui i rapporti uomo-donna venivano messi sotto la lente d’ingrandimento e cinicamente scrutati da un’onniscienza femminile.
L’amara conclusione che l’amore sia solo nutrimento egoistico e bisogno costante di uova invece, svanisce senza complicazioni nella parabola romantica di un incontro banale, spacciato per folle e irrazionale quanto la frequentazione di un umano con una pecora (la strana coppia di
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere è citata a sproposito come modello di riferimento). Sono tanti i punti interrogativi che aleggiano spontaneamente nella mente di una fan di
Woody Allen, che si ritrova a guardare un film su una fan di Woody Allen, senza scorgere alcunché di se stessa. Accigliati dal fatto che la suddetta protagonista non appaia né misantropa, né ipocondriaca, né debole di nervi; interdetti dalla totale assenza di crisi depressive, ossessive, fobiche, maniacali e da una neppur accennata vena di sarcasmo nella personalità, ci si raggela apprendendo della sua fede per la religione ebraica e del perfetto allineamento ai valori della mentalità borghese. L’ingenuotta Alice infatti, persegue verità irremovibili in cui crede ciecamente, aspira alla felicità eterna e sogna il matrimonio come una Bridget Jones qualsiasi. Posta così, gli insegnamenti del mentore cinematografico parrebbero travisati e buttati al vento. E in effetti alla fine si scopre che crescere a pane e
Manhattan le è servito unicamente per ripararsi dai complessi e dall’emarginazione dell’età adolescenziale, e che le influenze salvifiche del mito non provengono affatto dalle lezioni (bogartiane) di educazione civica e sessuale, ma dal suo florido bagaglio artistico, letterario e musicale. Ma perché allora scomodare Allen e non direttamente Flaubert? Perché non farla dialogare con il poster di Karl Potter? O con Moccia, se si ritiene che la vita sia colorata da cascate di cuoricini rosa. Forse perché in Francia la formazione culturale del maestro newyorchese ha appeal sicuro sul pubblico, specie dopo
Midnight in Paris. O forse perché ci vuole il supporto esterno di un’identità facilmente riconoscibile, forte e precostituita, a reggere la piattezza caratteriale di personaggi sviluppati in forma anonima. In ogni caso, se l’autrice si fosse risparmiata la storiella da baci perugina limitandosi a sfruttare l’arte in termini bovaristici e a rielaborare in maniera originale i clichés consolidati, avrebbe perlomeno soddisfatto i palati dei nerd cinefili, che con l’immagine iconografica di Woody parlano davvero. Parlano ma ultimamente non ottengono risposta, ed è anche probabilmente alla vuota confezione della recente pellicola da cartolina
To Rome with love che va attribuita la colpa di furbe operazioncine commerciali come questa.
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C’è rimasto ben poco da esultare, e anche il ricordo nostalgico dell’Italia liberata, del valzer e del caffè cantato da De Gregori,
non basta più a consolare l’orgoglio ferito.
Tre escort vestite nelle tinte del tricolore sono posizionate una di fianco all’altra, pronte a ricevere le prestazioni di una classe politica indifferenziata e sodomita. E’ questa l’immagine più rappresentativa a cui una commediola impregnata di populismo come
Viva l'Italia ricorre per descrivere il malcontento contemporaneo. Poco importa che la casualità abbia indicato negli attori, chiamati ad interpretare la vergogna delle raccomandazioni, il volto di Raoul Bova, prestato da quando è in fasce ad una professione che gli è congenitamente inadatta, della tuttofare Ambra Angiolini, sprovvista di un particolare sapore ma aggiunta come il prezzemolo abbondantemente in ogni piatto, e di Alessandro Gassman, il cui cognome ogni volta ci ricorda quanto siano frequenti i casi di omonimia nel nostro paese. E poco importa se Massimiliano Bruno prima si schiera dalla parte dei precari e con loro si commuove, ma poi rivendica la dignità di chi si è fatto strada con le spintarelle; se prima si accanisce brutalmente con Michele Placido affidandogli lo spietato ritratto di un Onorevole ammiccante al Cavaliere, malato e abbandonato da tutti, e poi (se la statuetta del Duomo avesse colpito più su?) lo converte rendendolo Grillino, nella versione più ottimista e caritatevole. L’Italia in fondo è così, patria del voltagabbanismo e misto di ipocrisie e connivenze, e di ideali venduti al miglior offerente.
Peccato che nel calderone poliprospettico, che vorrebbe essere la giustificazione di una situazione attuale che solo i libri di storia postumi potranno sedare, le (a volte brllanti) punte grottesche rendano grotteschi e superficiali anche i problemi per cui ci siamo inginocchiati, buttando tutto in caciara allo stesso modo con cui il
Mutande pazze di Roberto D’Agostino si approcciava alla seria minaccia del neonato potere televisivo.
Finendo, nel caos generale mascherato dalla risata, per assolvere tutti.
Approfittando delle provocazioni già seminate su questo blog in merito ai cinepanettoni/specchio riflesso della società, la sottoscritta rilancia proponendo una riflessione sullo stato di salute della fiction nostrana. Ovviamente, inutile dirlo, si tratta di uno stato terminale da encefalogramma piatto. E’ anche vero però, che il disprezzo per i prodotti televisivi italiani (impennatosi dopo il successo di Boris) impedisce talvolta alla critica di scorgere distintamente all’interno del quadro clinico, di pari passo con un atteggiamento ghettizzatorio e radical chic che stacca la spina anche ai rari impulsi elettrici lampeggianti.
Ricordiamo, la controtendenza è figlia legittima degli spiriti curiosi e polemici, e ciò può bastare a raddrizzare i numerosi nasi che si storceranno e ad assolvermi presso la pubblica piazza da quanto sto per affermare, ovvero che L'onore e il rispetto è in assoluto la migliore serie del millennio. Perché volutamente estasi del kitch, melodrammone debitore dei fotoromanzi, citazionismo barocco, spettacolare, come l’avrebbe concepito Tarantino se avesse voluto omaggiare Il Padrino (qui ripreso fin dalle musiche e dalla scansione delle stagioni in parte seconda e terza). Un trash onesto e scanzonato, che non si nasconde dietro il velo appannato della fotografia smarmellata e del finto buonismo dell’analisi sociale, in devozione alle strizzatine d’occhio ecclesiastiche e ai crocifissi appesi, ma si pone per ciò che è, puro intrattenimento pecoreccio. Sesso e violenza sono gli insoliti protagonisti di una sceneggiatura che, a differenza delle tante geograficamente collocate da Napoli in giù (ma scritte, è bene sottolinearlo, da Roma in su), non ha la pretesa di farsi portavoce di alcun diritto, di fornire spiegazioni incomprensibili agli stessi che il territorio lo abitano, raccontando sconfitte che non esistono, secondo la contrapposizione schematica buoni Vs cattivi (anche perché, di Montalbano ce n’è uno solo). La vendetta logora tutti a Sirenuse, nessun escluso, mostrando paradossalmente a suon di stupri, sparatorie e carneficine surreali l’intricata collusione locale con più credibilità dei contesti “normali” precorsi dalla soap Agrodolce, dove sfuggire allo stereotipo della peggiore specie, al macchiettismo più fastidioso e insopportabile (quello calato nella quotidianità) è un’impresa impossibile.
Ne L’onore e il rispetto invece, il velo nero, la lupara, un “minghia” o un “bottana” diventano simboli spirituali e canti liberatori di una concezione teatrale della tematica trattata, che grazie ai toni estremi ed effettistici finisce per essere esorcizzata. E poi, chiuso il dibattito (all’epoca sacrosanto) su Il corpo delle donne nella tv berlusconiana, finalmente anche le casalinghe/i in calore possono sostituirsi a Lino Banfi dinnanzi al buco della serratura, e spiare l’involucro oggetto Dario Oliviero in arte Gabriel Garko. Ai suoi addominali scolpiti e ai glutei marmorei il merito (oltre che estetico) di avere lanciato un genere inedito: la tragicommedia erotica femminista. Ma se per la rivalutazione della doccia della Fenech abbiamo dovuto attendere trent’anni, possiamo stare certi che per la vasca di Tonio Fortebracci non andrà diversamente.