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Tutti i post per la categoria: Serie TV riflessioni sparse

HBO does it better...

Pubblicato il 04/02/2013 10:42:06 da K.S.T.D.E.D.


"Banshee", secondo la mitologia irlandese e scozzese, è uno spirito femminile che si palesa agli occhi di colui/colei che da essa viene toccato. I suoi occhi sono sempre arrossati dal pianto, si dice, e la sua apparizione è accompagnata da urla e lamenti. La persona che è stata toccata, infatti, è destinata a morire di lì a breve.
"Banshee", è anche il titolo della nuova serie HBO. "Banshee", nello specifico, è il nome della cittadina che ospita un intreccio invero molto adatto ad una scelta simile. E' la storia di uno dei migliori ladri in circolazione, Lucas Hood, che dopo essere stato in galera per 15 anni, decide di sistemarsi nella cittadina di cui sopra, spacciandosi per il nuovo sceriffo. La cittadina, ovvio, non è propriamente pulita, ed è anzi governata ufficiosamente da Kai Proctor, gangster psicotico non abituato a non avere qualcosa sotto controllo. Se si considera, poi, che il passato di Hood non si è certo dimenticato di lui, si capisce bene che il nome dato e alla serie e alla cittadina sia quanto meno indicato. Ed effettivamente dopo appena qualche puntata, ma diciamo anche dopo i primi minuti della prima, se ne ha chiara conferma.

Il pilota si apre con un brano che definire sporco sarebbe un eufemismo. “Fifth of Whiskey” di Verse and Bishop traccia fin da subito le linee guida di un'atmosfera assai rarefatta, tratto principale della serie. Un'atmosfera, per certi versi, anche esasperata, così come alcune scelte di sceneggiatura, che potrebbero in verità far storcere il naso. Un eccesso che però, parere di scrive, può farsi rientrare tranquillamente in quell'aria quasi fumettosa, come suggerisce anche la locandina, capace di imporsi fin dall'inizio. Spesso, infatti, la serie sembra spingere verso espressioni che potrebbero tranquillamente definirsi pulp, con quel suo non evitare ma anzi cercare una violenza anche spettacolare (nel senso proprio del termine), quel non disdegnare affatto l'aspetto sessuale, non centellinandone assolutamente la presenza, e con quell'atteggiamento generale chiaramente autocompiaciuto. Non è un caso che l'intreccio sia popolato di hacker drag-queen a cui sembrerebbe il caso di non dare troppe rogne, di gangster ben al di là di quella che si definirebbe sanità mentale, di scopate occasionali che non ci si preoccupa troppo di non far sembrare messe lì giusto perché in quel momento un paio di tette sballottate qua e là ci stavano bene (con il montaggio che sembra preoccuparsene anche meno), di un protagonista che non sembra farsi troppi problemi a rispondere alla violenza con un livello di violenza ancora maggiore. La terza puntata, a tal proposito, riserva nella parte finale parentesi meravigliose, che scoprono definitivamente il volto del prodotto e dichiarano senza troppe storie che quanto visto fino a quel momento non era solo un modo per aprire col botto ma il preludio, al contrario, alla reale violenza che sarebbe venuta (e che verrà, si spera) in seguito.

Il ritmo, lo si intuisce facilmente, è quanto meno elevato. Non che non ci si preoccupi di approfondire in maniera particolare i personaggi, è solo che l'introspezione è misurata al fine di non intralciare mai troppo l'aspetto più pulp del racconto. Non sia mai che qualche discorso di troppo sull'aspetto umano dei personaggi precluda allo spettatore la possibilità di vedere discrete quantità di sangue e cazzotti. Non sarebbe carino, in effetti. E se Alan Ball non l'ha fatto in “True Blood”, giustamente, non v'è motivo per cui dovrebbe proporlo al contrario in questo caso. Sì, perché Alan Ball è tra i produttori esecutivi della serie, creata invece da due volti abbastanza nuovi nell'ambiente, Jonathan Tropper e David Schickler.
Anche i dialoghi, che potrebbero facilmente scadere in ogni sorta di banalità con un simile soggetto ed un simile sviluppo, tengono bene il passo. Non eccezionali, ma forse neanche necessitano di esserlo, dovendo semplicemente restare fedeli a personaggi che, come si scriveva poc'anzi, non possono vantare chissà quale spessore. L'importante è che non siano un ammasso di frasette idiote anelanti all'essere d'effetto. E fortunatamente non lo sono. Tutt'al più lo sono il giusto.
Quanto appena scritto peraltro, con i dovuti adattamenti, è quanto si potrebbe scrivere delle interpretazioni (grazie a Dio di attori quasi sconosciuti), in particolar modo di quella di Antony Starr, nella parte del protagonista.

Ulteriore prodotto per cervelli spenti, quindi. Ha tutti gli elementi perché continui su livelli assai discreti, benché ne abbia altri, per ora pochi e veniali, come l'inizio del quarto episodio, l'ultimo andato in onda, che laddove dovessero prendere il sopravvento rischierebbero di buttare un po' tutto alle ortiche. E viste le premesse sarebbe davvero un peccato ancor prima che uno spreco, considerato anche il fatto che è già stata ordinata, dopo appena tre episodi, una seconda stagione.



Date un'occhiata al trailer qui sopra, se non altro per ascoltare la fantastica “F.E.A.R.” dei Various Cruelties, e laddove dovesse convincervi, nel guardare le puntate ricordatevi di aspettare la fine dei titoli di coda.

Kurt Sutter e il fascino del tanfo

Pubblicato il 20/12/2012 11:15:42 da K.S.T.D.E.D.


La quinta stagione del secondogenito di Kurt Sutter, creatore di quel capolavoro che è "The Shield", per chi ancora non lo conoscesse, si è da poco conclusa. Le premesse non erano delle migliori, se si considera il finale alquanto debole della quarta, in cui si ha la chiara sensazione che si sia trovato un escomotage di bassa lega per poter portare avanti una storia che sembrava essere giunta al suo climax. Quella sensazione resta in questi ultimi 13 episodi, tuttavia c'è anche dell'altro. C'è che Sutter con la sua solita maestria è riuscito comunque a metter su un'altra parentesi di tutto rispetto, in cui i personaggi evolvono ulteriormente. Ora non starò qui a scrivere di pro e contro, di se e quanto la quinta stagione sia valida, del fatto che siano state ordinate addirittura altre 2 stagioni, ma vorrei più che altro fare un paio di considerazioni su un aspetto che accomuna "The Shield" E "SOA", su un aspetto che si può quindi attribuire in generale allo stile di Kurt Sutter. Mi riferisco, nello specifico, alla capacità di tirar fuori il marcio dai suoi personaggi, o meglio alla capacità di tirarlo fuori dall'inizio ma di farne sentire il tanfo solo più tardi. Nelle varie stagioni di "The Shield" si tifa per Vic, non si discute. E' il protagonista, lo si vuole veder vincere, lo si vuol far sopravvivere, ci si sofferma solo sugli aspetti più umani che lo rendono degno di comprensione, sparsi intelligentemente qua e là all'interno della sceneggiatura. Verso la fine però succede qualcosa, si alza di colpo un'atmosfera maleodorante, Vic resta il bastardo che è, ma sembra quasi che adesso lo spettatore non si limiti più a prenderne atto, ma ad avvertirne il cattivo odore. Ci si rende conto di non parteggiare più per lui, ma di provare per lui la stessa compassione che si prova per un miserabile che si avvicina giustamente alla fossa che si è scavato. Più in generale anche la storia passa dall'essere avvincente e adrenalinica all'assomigliare più ad una tragedia, senza speranza, a tratti opprimente (la scena di Shane,a tal proposito, resta uno dei punti più alti mai raggiunti dal mezzo televisivo). Anche in questo caso lo si sapeva già da prima, ma solo più tardi, quando lo decide Sutter, lo spettatore comincia ad accusare l'aspetto più nero della storia. Questo è l'elemento in assoluto, parere di chi scrive, più riuscito dell'ultima stagione, che è a sua volta, guarda caso, strepitosa.
Nella quarta stagione di "SOA" Sutter fa la stessa cosa. Comincia a tirar giù le maschere, a spogliare i suoi personaggi, a privarli di quel loro apparire, nonostante tutto, ed è il caso di sottolineare “nonostante tutto”, accattivante. Ogni singolo carattere comincia a mostrare i suoi limiti, a far arrivare dall'altra parte una sensazione non più gradevole come prima. Nella quinta stagione Sutter mette in questo senso la quinta, frantuma la superficie sulla quale si muovono i suoi protagonisti, li lascia lì in caduta libera. Anche l'ombra di una qualche salvezza inizia a svanire. E così quell'odore nauseabondo di cui sopra comincia ad avvertirsi chiaramente anche qui, è lo stesso, Sutter sembra adorarlo, e non si può fare a meno di subirne il fascino, perché usato alla perfezione. L'intera stagione è una discesa inesorabile, un crollo continuo di castelli di carta, di volti che non riescono più a guardarsi allo specchio, che si mostrano con una certa difficoltà sapendo che la loro parte più penosa è ormai all'esterno e sotto gli occhi di tutti. Anche gli atteggiamenti in apparenza altruistici non sembrano più tali, sembra che nessuno faccia più niente se non per sé (stupenda la scena di Tig/Jax/Pope nelle ultime puntate). La solitudine la si respira chiaramente, la si respira ovunque, che sia in una stanza vuota o al tavolo circondato dai membri di SAMCRO.
In questo Sutter sembra infallibile. Riesce come pochi a trasformare la consapevolezza in sensazione, riscrivendola e rendendola realmente tale. Arriva un punto durante i suoi racconti in cui sembra si sia riusciti finalmente ad aprire gli occhi e a guardare il vero volto di ciò che si è avuto davanti per varie stagioni, e non più semplicemente a sapere che è lì. Ovviamente, non poteva Sutter perdere l'occasione di chiudere la stagione con un inno a quanto scritto fino a questo momento: si serve di una versione meravigliosa di “Sympathy for the Devil” dei Jane's Addiction, di un testo che più adatto non poteva essere e mette su una scena conclusiva che, come al solito, difficilmente sarebbe migliorabile.

"So if you meet me
Have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I'll lay your soul to waste
"

Generalmente guardando storie di questo tipo capita di fantasticare un po'. Anche con SOA. Moto, fughe, andrenalina. Al termine della quinta no, non più. "It ain't fun anymore".

Era difficile riprendere da un finale debole come quello della quarta. Sutter c'è riuscito.

Homeland: come fare le cose per bene

Pubblicato il 18/12/2012 13:45:15 da K.S.T.D.E.D.


Per notizia, “Homeland” è un prodotto televisivo assai riuscito. E merita tutte le mie scuse. Prima che uscisse, infatti, ero convinto sarebbe stato qualcosa di visto e rivisto attraverso il quale far leva sul patriottismo della parte più dormiente del popolo statunitense, e più in generale su coloro che non vogliono cose troppo diverse tra loro quando guardano un film, piuttosto che una serie, piuttosto che qualsiasi altra opera di fantasia. Mi riferisco a coloro che chiedono unicamente il cattivo di turno, l'eroe di turno, svariate soluzioni non troppo credibili e una serie di altri personaggi messi lì tanto per riempire spazi vuoti nell'inquadratura. Insomma, in due numeri, “24”. Se ero così prevenuto, sbagliando, è proprio grazie a quest'ultima serie, amata un po' ovunque ma in realtà pessima. Per niente credibile con i suoi milleduecento colpi di scena a puntata, con un protagonista che da solo sventa praticamente qualsiasi minaccia e che in un solo giorno (24 puntate a stagione, ognuna per ogni ora della giornata) fa quello che farebbero 10 persone in una settimana; con personaggi il cui approfondimento psicologico è perfettamente in linea con la superficie della pianura russa; con uno split-screen che tuttora, a distanza di anni, mi urta cordialmente i nervi; con una marea di altre sciocchezze che non si può star qui ad elencare, perché è di Homeland che si sta scrivendo, quindi torniamo su Homeland. Anche perché, del resto, ne vale assolutamente la pena, essendo l'esatto contrario del prodotto superficialotto di cui sopra. Gideon "Gidi" Raff, creatore della serie, mette in scena un intreccio incredibilmente maturo nonostante il tema ormai fin troppo abusato per racconti di spessore ben più trascurabile: cerca, riuscendoci, di restare sempre sui binari della credibilità, di fare in modo che quanto raccontato possa apparire agli occhi dello spettatore una realtà possibile, facilitando l'immedesimazione dello stesso. Non che rinunci, però, alla spettacolarità, intendiamoci, né ai ritmi più forsennati tipici del thriller, né tanto meno al colpo di scena, usato con maestria e senza cadere nell'eccesso (tranne forse qualcosa, ma al termine di poco conto), pur non sacrificandone l'aspetto più cinematografico. All'intreccio in sé, poi, si affianca ovviamente anche la messa in scena, che non si potrebbe criticare neanche volendo. A partire dalla fotografia, che ricalca perfettamente gli stati d'animo che sfilano sullo schermo, tutti solitari, tormentati e grigi fin quasi al punto di angosciare. Cosa che, peraltro, già fa la sigla d'apertura con quel suo essere un concentrato di fascino e inquietudine.
E' l'introspezione il punto di forza di Homeland. La storia, pur essendo coinvolgente e accattivante, è al suo servizio, mai il contrario. La gamma emozionale dei personaggi è lì sullo schermo, non resta che osservarla e lasciarsi guidare dalla stessa per comprendere i singoli personaggi e provare empatia nei loro confronti. E non solo fotografia e intreccio, anche la regia si adatta per lo più ai tempi richiesti dall'introspezione, tanto che a venirne fuori è un prodotto maledettamente cosciente del suo volto e che infatti non si perde mai per strada. Solido e maturo. Ah, e interpretato meravigliosamente, anche. Chiunque sostenga il contrario farebbe bene a mettersi in un angolo evitando di pronunciarsi su qualsiasi altra questione. Damian Lewis, che già fece una discreta impressione in “The Escapist”, è superbo nella parte di Nicholas Brody. Claire Danes, poi, nel ruolo di Carrie Mathison rischia di far perdere lucidità allo spettatore come accade al suo personaggio, tanto arriva dall'altra parte dello schermo.

A breve terminerà la seconda stagione, che non ha (almeno fino a qualche puntata dalla fine) niente da invidiare alla prima e che anzi tocca picchi davvero notevoli. Credevo potesse essere godibile, ma non così riuscita. Dovreste vederla.

Una guerra per il trono: Game of Thrones

Pubblicato il 27/11/2012 12:54:51 da Zero00


La tivù non sempre propone prodotti di basso livello, non sempre è la sorellastra del cinema. Spesso, per la tivù, producono prodotti di tutto rispetto, alcune volte capolavori veri e propri. Certe serie lo dimostrano e lo hanno dimostrato e tra queste ce n'è una molto recente e molto famosa, Game of Thrones, conosciuta in Italia con il titolo Trono di spade.

Game of Thrones è un capolavoro fantasy e se n'è parlato molto negli ultimi tempi. Tanto la critica quanto gli spettatori l'hanno premiata, permettendo alla HBO (Oz, The Sopranos, True Blood) di produrne due stagioni e confermarne una terza in uscita nel 2013.
Trasposizione della collana di romanzi fantasy A Game of Thrones, dello scrittore George R. R. Martin, la prima stagione è andata in onda nel 2011 e la seconda nel 2012, entrambe scritte dalla coppia D.B. Weiss e David Benioff. Bisogna dirlo, sono entrambe spettacolari, un groviglio di trame e sottotrame che corrono su binari paralleli e si intersecano per poi allontanarsi e riavvicinarsi subito dopo.
Non è facile seguire gli avvenimenti che sconvolgono i Sette Regni prima che la lunga estate finisca per lasciare il posto al lungo inverno. Sin dal primo episodio della prima stagione facciamo un po' fatica, noi spettatori, a seguire tutti i personaggi, a ricordare i loro nomi e a riconoscere i buoni dai cattivi. Probabilmente perché, tranne qualche caso isolato, buoni e cattivi si confondono, mutano e prendono il posto l'uno dell'altro. L'ambientazione è quella di un Medioevo molto simile al nostro, in cui miti e leggende sono l'eco di un passato lontano sepolto nella neve e oltre il mare. Storie dimenticate o raccontante da vecchie dame di compagnia o spiritati consiglieri ultracentenari. Eppure quei miti e quelle leggende sembrano non essersi dimenticati del sud, del mondo civile, e lo rincorrono celati nell'ombra.

Il fantasy, in Trono di Spade, è un accidente che episodio dopo episodio prende forma divenendo sempre più fondamentale ai fini della storia. E' l'aspetto fantasy a introdurci nella serie, con una sequenza bellissima che mostra i propri debiti nei confronti di tanto cinema horror. Poi viene lasciato dietro le quinte (con qualche breve comparsata) fino al bellissimo finale di prima stagione. Ed è in quel momento che capiamo quale sia la dimensione originaria di una storia che non rinuncia mai a uno pseudo realismo visivo, tra sangue, escrementi e intrighi di corte. Non ci sono solo draghi, giganti e immortali, ma esseri umani che lottano per il potere e per la gloria, animati da vendetta, onore e ambizione. Nella seconda serie l'elemento fantasy è più presente ma mai invasivo, non fa altro che dare al progetto un impronta surreale e ne moltiplica il fascino mitologico.
Un'epopea epica intrisa di ironia e romanticismo, che non lascia nulla all'immaginazione tra corpi nudi e squartati, cavalli decapitati e scene di sesso lesbico tra prostitute. Qualcuno potrebbe trovare delle similitudini con altri prodotti televisivi attuali (Spartacus?) ma Game of Thrones è diverso e quando finisce lascia un vuoto incolmabile nello stomaco. Attori e regia sono sopra la media e in fase di scrittura l'impagabile duo Weiss/Bonioff ha dato spessore ai personaggi rendendoli quasi tutti indimenticabili, nel bene e nel male. Ciò che viene raccontato sono storie di vita in un mondo più vicino al nostro che a quello di Dungeons & Dragon o Il Signore degli Anelli. Lentamente, con il passare degli episodi, il groviglio inesplicabili di nomi e volti si dipana e seguire gli eventi diventa più facile, perché l'obbiettivo finale è il trono di spade e attorno a quest'ultimo si focalizza l'attenzione di tutti, di chi è oltremare e di chi è oltre la Barriera.

La verità è che fa sognare. Sì, fa sognare questa serie che ti prende e ti porta in un altro mondo, ti fa sentire la sporcizia e il rumore delle spade e tu ti ritrovi senza accorgertene in un'altra dimensione, che anche se terribile, ingiusta e violenta, è comunque migliore della solita, vecchia routine. Si può stare dalla parte di una qualunque delle casate invischiate in questo gioco al massacro, con i ricchissimi Lannister, gli onorevoli Stark o i guerrieri Baratheon. Si può ammirare il coraggio di Jon Snow membro dei Guardiani della Notte e esploratore di terre selvagge o l'onore di suo padre, Ned Stark. Si può amare alla follia la bellissima Khalesi dai capelli d'argento, Daenerys Targaryen, diretta discendente al trono del Re Folle e regina dei draghi, o ammirare il possente Khal Drogo, suo marito. E, perché no, è facile perdersi nei lunghi monologhi della fiera Cersei Lannister o tra l'arguto umorismo di suo fratello Tyrion, il folletto (il personaggio più riuscito di tutta la serie), allo stesso modo in cui è facile odiare la crudeltà di Joffrey Baratheon. Più penetri la coltre e più ti ritrovi parte del tutto, sei quasi una delle spie di Varys l'eunuco, fino a sentirne la mancanza quando sei costretto ad andar via.
Tratta da una serie letteraria lunghissima, non deve essere stato facile comprimere in 600 minuti per serie tutto quello che viene raccontato sulla copia cartacea. Forse è questo l'unico, misero difetto: comprimendo si finisce sempre per creare una sorta di caos che però, in questo caso, ben si amalgama con quel che viene raccontato. E tra un colpo di scena e l'altro c'è anche il tempo per ridere e commuoversi.
Forse Game of Thrones è una delle serie più cinematografiche mai prodotte. Ricorda molto l'estetica di un certo tipo di cinema tra il peplum e l'epopea. Non a caso a dirigere il nono episodio della seconda serie troviamo una vecchia conoscenza dei cinefili: Neil Marshall.

Ora, in attesa di vedere cosa succederà con la terza stagione prevista per il 2013, non possiamo far altro che rivedere le prime due e continuare a sognare. Perché sognare fa bene e la televisione, certe volte, aiuta a farlo tanto quanto la letteratura e il cinema.

L’amico del dottor House

Pubblicato il 14/11/2012 08:40:44 da Pasionaria


Nell’episodio finale della fortunata serie Dr. House, intitolato “Everybody dies” sulla falsariga di una famosa frase del protagonista, ovvero “Everybody lies”, succede di tutto: molte convinzioni vengono riconsiderate tramite la fulminea ricomparsa di tutti i personaggi della serie, come da copione. Ciò che colpisce, però , è l’ultima scena che, sul motivo Enjoy Yourself, vede Gregory House e l’amico James Wilson correre sulle proprie moto lungo la strada che li condurrà verso un nuovo destino, non a caso insieme.

Di otto stagioni, alcune delle quali indimenticabili, resta il sapore di questo legame amicale, quello fra i due medici, unica autentica e costante relazione affettiva del nostro eroe.
Sul personaggio di Gregory House e sulle persone che gli ruotano intorno ci sarebbe da scrivere pagine e pagine, ma ciò che rimane maggiormente impresso in chi ha amato la serie televisiva, è il rapporto insolito che si snoda nei vari episodi, tra House e Wilson.

Un’amicizia maschile, schietta, spietata, cinica; anche giocosa, ironica, grottesca.





Il protagonista indiscusso e personaggio eccezionale, Gregory House, ritrova consapevolmente nell’amico oncologo la propria coscienza: Wilson è sempre pronto a dare consigli, pur sapendo in partenza che non saranno ascoltati, è pronto ad agire per il bene dell’amico, rispettando regole e promesse, continuamente disattese da House. E il dottor Wilson, dal suo canto, riconosce, ammira e invidia la genialità dell’amico, con il quale cerca d’identificarsi in un perenne gioco competitivo di intuizioni, deduzioni e trovate superbe.

Dimmi cosa preferisci : un dottore che ti tiene la mano mentre muori o uno che ti ignora mentre migliori?

In questa frase, che il nostro dottore pronuncia durante un colloquio con un paziente, stanno le fondamenta della sua etica, un’etica discutibile per i più. D’altronde la condotta del dottor House vìola elementari regole di convivenza, senza contare il regolamento all’interno dell’ospedale in cui lavora e il rispetto tra colleghi ed amici. Nonostante i raggiri, gli inganni, gli scherzi che mette continuamente in opera, soprattutto a danno dell’amico Wilson, il Dr House possiede suoi principi, non necessariamente principi morali accettabili, talvolta addirittura folli, ma sono principi che seguono la consequenzialità, ovvero il risultato.
Non si confonda, però, la logica di House con il banale luogo comune “ il fine giustifica i mezzi”, non è così semplice, se, anzi, così fosse, probabilmente i suoi collaboratori, persino Wilson, l’avrebbero subito abbandonato ai propri deliri.
No, no. Il principio consequenzialista di House presuppone che il criterio per valutare la correttezza di un’azione stia nelle sue conseguenze e la sua giustificazione stia nel convincersi(re) che una certa azione porterà alle conseguenze giuste, cioè al bene stabilito ( solitamente quello del paziente). Ed è qui che s’insinua l’amico Wilson, considerato da molti l’anti-house, il quale invece è strettamente legato a principi deontologici, cioè ad un sistema etico basato sui doveri, che condizionano le scelte. Talvolta i due differenti approcci collimano in un’unica soluzione, più spesso no, da qui nascono i ripetuti confronti tra i due amici.
Apparentemente House ne risulta sempre il vincitore, tuttavia ad un’analisi più attenta, emerge sempre più chiara e forte la ragione di Wilson, anche se involontariamente. James Wilson è l’unico in grado di controllare e guidare Gregory ed entrambi ne sono consapevoli, nonostante spesso l’oncologo appaia succube del narcisismo del diagnosta.
Insomma si respingono e si attraggono contemporaneamente e vicendevolmente, attingendo uno dall’altro e riflettendosi l’uno nell’altro,si, sono inscindibili.

Un’amicizia esemplare la loro, un rapporto faticoso ma fecondo, mai banale, sorprendente, ironico.
Come non invidiare un’ amicizia così completa e bizzarra, diventata già leggenda nella storia delle serie-tv!

Categorie: Serie TV riflessioni sparse

Commenti: 7, ultimo il 14/11/2012 alle 18.17.34 - Inserisci un commento

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