Ci eravamo persi qualcosa.
Sapevamo già i Daft Punk essere ossessionati dalla contrapposizione robot-uomo e dal percorso per diventare umani; lo suggeriscono le canzoni e ne parla già il loro primo film animato, Interstella 5555, tratto dall’intero album “Discovery” e disegnato dall’animatore giapponese Matsumoto. Come se non bastasse, i loro stessi alter ego sono robot, quelli che salgono sui palchi di tutto il mondo a suonare i pezzi che li hanno resi famosi.
Daft Punk's Electroma, del 2006, è uscito sotto assoluto silenzio. Neanche parlarne di una distribuzione italiana, figurarsi, ma è lo stesso web che si accorge a malapena della sua esistenza.
L’illustre rotocalco digitale Filmscoop, infatti, ne espone una scheda vuota, e a questo va posto rimedio.
Cominciamo col dire che si tratta di un film ostico. La stessa definizione di film mi lascia dubbioso,
ritenendo forse più attinente quella di videoclip, ma comunque ognuno lo interpreti di per sé.
Il popolo del web che ha potuto assistere a questo lavoro si è ritrovato disorientato, principalmente per il carattere non convenzionale dell’opera, e le ragioni della meraviglia, per la maggior parte, sono così giustificate “non mi aspettavo che un duo electro/pop che fa ballare la gente potesse fare una cosa simile”.
Ci si aspettava, forse, una produzione più in grande stile e mainstream à la Tron Legacy, di cui gli stessi DP hanno curato le musiche.
Ed effettivamente, a guardare DP’s Electroma, con lunghi silenzi e intermezzi di classica (Haydn, Chopin) e ambient (l’imprescindibile Brian Eno), mai si potrebbe pensare al prodotto di una coppia di giovanotti tamarri, che vanno in giro con giacche borchiate (una cosa del loro stile che simpaticamente rimane nel film).
La risposta è semplicemente che i Daft Punk sono sempre stati qualcosa di più di ciò che comunemente si pensava, la musica orecchiabile era frutto di uno studio e di una trasposizione in chiave moderna di vecchi pezzi, dei più svariati generi. Gli ossessivi ritmi robotici, una ricerca di ciò che si può fare con suoni esclusivamente digitali.
Come sempre dico, mi piace pensare che ciascuno di questi Artisti abbia una certa cultura – musicale e non – che non sempre esplicitamente ostenta, ma che dovrebbe intuirsi dalla qualità dei prodotti finali. Questo film ne è la prova.
Pensate ad esempio ad un Tarantino che si limitasse ad emulare e la smettesse di citare spudoratamente.
Vabbè questa è un po’ forte, Tarantino senza cit. non è lui.
Insomma, il film.
Inizia con una Ferrari 400i nera – di quelle che avete visto solo in scala BBurago - in mezzo a qualche deserto americano, con atmosfere on the road anni ’80 e ci trasporta lentamente, attraverso uno scenario Asimoviano con lunghissimi piani sequenza e tempi dilatati allo sfinimento – e ve lo dico sinceramente, il più delle volte la vostra mente scivolerà verso altri pensieri - ad un drammatico finale nel deserto. Un po’ Koyaanisqatsi per il suo intreccio natura-musica, un po’ – per forza di cose – Live at Pompeii, per un tentativo di sublimazione delle immagini con la musica e della musica con le immagini, ma con molte più tregue musicali rispetto al documentario di Adrian Maben.
La gente dà anche sottili interpretazioni sull’etica dell’androide. Qui l’unica spiegazione da dare si risolve nelle immagini.
Cesare Brandi, uno dei massimi storici e teorici d’arte italiani, ha parlato di “Riconoscimento di opera d’arte”, come quel momento in cui si smette di associare a un oggetto la funzione per cui è stato creato e gli si associa un pensiero più grande, e l’immagine dell’oggetto, del quadro, viene interiorizzata; perderla, da quel momento in poi, potrebbe equivalere a una perdita affettiva, interiore, come di un parente di tutti.
Ebbene, nel cinema, secondo me, si può fare un discorso analogo. Nata come oggetto con un preciso scopo, da una pellicola si possono estrapolare poche significative immagini che restino come exemplum, iconiche. Qui ce ne sono due o tre, separate, c’è da ammetterlo, da lunghi momenti di noia.
Non so cosa ho visto, non so cosa ho scritto. Credo solo che ci eravamo persi qualcosa.