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Il sequel più ardimentoso di tutta la storia del cinema. Dal 1895 ad oggi, il film a più alto rischio di stroncatura ancora prima di vedere la luce. L'eredità artistica più pesante da raccogliere, il confronto con il genio di un regista che, con il primo capitolo dell'epopea-Discovery, aveva dischiuso nuovi orizzonti e prospettive al mondo della settima arte.
Alla fine, Peter Hyams riesce nell'improbo compito di non sfigurare di fronte all'estro di Stanley Kubrick, regalando ai cinefili un'appendice di "2001: Odissea nello Spazio" esente da eccessive pecche e ingenuità, sebbene solo lontana discendente del capolavoro poetico-metafisico del regista newyorkese.
Naturalmente, la genesi di "2010: l'Anno del Contatto" (1984) è da ricercare nella penna di Arthur C. Clarke il quale, dopo il successo mondiale di "2001: Odissea nello Spazio", si abbeverò di nuovo alla limpida fonte della sua immaginazione, partorendo il libro "2010: Odissea due". Obiettivo dello scrittore: chiarire a tutti i comuni mortali che fine avesse fatto l'astronave Discovery, entrata nell'atmosfera gioviana nel 2001 e poi rimasta silenziosa per nove anni. Che ne era stato della missione-Giove? Cosa era realmente successo agli astronauti Frank Poole e (soprattutto) David Bowman?
Il film di Hyams riparte dai tormenti di un redivivo Heywood Floyd (un improbabile, sbruffoncello Roy Scheider, ben diverso dal compassato Floyd calzato da William Sylvester in "2001"). Lo scienziato americano, che nel precedente capitolo si era recato sulla Luna a esaminare l'enigmatico monolite nero e nel 2001 aveva guidato l'operazione-Discovery, si imbarcherà sull'astronave russa (!) Leonov per raggiungere la Discovery, misteriosamente fluttuante tra il satellite Io e il pianeta Giove. A far da sfondo, tutt'altro che secondario, all'eccezionale missione congiunta Usa-Urss, i venti di guerra che soffiano tra Washington e Mosca, sempre pronti a tramutarsi da fastidiose brezze in devastanti uragani.
Peter Hyams giunge subito al sodo, senza indugiare in interpretazioni approfondite, da parte dei personaggi, sul possibile esito della missione gioviana di nove anni prima. I russi ci mettono la tecnologia (l'astronave Leonov e il suo equipaggio), gli americani la conoscenza (il team statunitense, insieme a Floyd, comprende altre persone che avevano seguito il viaggio di Poole e Bowman, tra cui il Dr. Chandra, creatore e programmatore di HAL 9.000) e ben presto si parte: destinazione Giove.
Le differenze stilistiche tra Kubrick e Hyams, sia nei sofismi tecnico-registici che nella cura per la sceneggiatura, balzano subito all'occhio: ad esempio, lo stereotipato quadretto familiare che ci propina Hyams nei primi minuti del film (Floyd a tavola con moglie e figlio che annuncia ufficialmente, con sommo dolore della moglie, la sua partecipazione all'imminente e lunghissima missione-Leonov) è contaminato da quel buonismo dolciastro-sentimentaloide che tanto rifuggeva il buon Stanley, allergico alle scene mielose e di scarso impatto emotivo.
Unitamente alla caratterizzazione, inspiegabilmente macchiettistica, di Heywood Floyd (inutilmente spaccone e spiritoso), questa e altre piccole ingenuità ci aiutano a misurare meglio le distanze esistenti fra "un buon film di genere e un capolavoro", come recitava il commento di un internauta su un sito di recensioni cinematografiche.
Sempliciotto e improponibile, specie per il sequel di "2001", risulta anche il manicheismo a stelle e strisce applicato ai rapporti Usa-Urss; in certe discussioni all'interno della Leonov emerge talvolta (e neppure tanto fra le righe) l'integralismo ideologico di alcuni astronauti americani: noi buoni, i russi brutti e cattivi.
Altra rotolata nel pozzo di fango della banalità, signor Hyams...
Per contro, è doveroso riconoscere al regista di "2010" l'indubbia capacità di creare suspense e tensione, ottenuta a più riprese soprattutto mediante l'utilizzo del montaggio alternato: i volti sempre più contratti degli astronauti durante la pericolosissima "aerofrenata" in prossimità di Giove, che si alternano ai suggestivi fotogrammi dell'astronave vista dallo spazio, costituiscono un saggio di tale abilità.
Ottimi anche gli effetti speciali, rutilanti e spettacolari ma, al contempo, mai esagerati o nauseanti.
La seconda parte del film, che si apre quando i russi e gli americani raggiungono finalmente la Discovery e penetrano all'interno della "vecchia" astronave rimasta sospesa fra Giove, Io ed Europa, si divide fra i colpi di scena e la suspense più specificamente attinenti al genere fantascientifico (come farà la Leonov a tornare a casa?
Riusciranno i membri dell'equipaggio a salvarsi dall'esplosione di Giove che sembra imminente a causa del propagarsi di una "macchia nera"?) e i veri guizzi di Clarke-Hyams, le loro incursioni narrative nel campo del sovrannaturale (le sorprendenti apparizioni di David Bowman, "uomo-delle-stelle", la rinascita e la distruzione di HAL 9.000, il potere del monolito che trasforma Giove in una nuova stella). "2010" diviene così, veramente, film di fantascienza e film del mistero.
Le musiche, cupe e incalzanti, si sposano bene con i momenti di maggiore pathos: particolarmente apprezzabili e riuscite le scene delle inquietanti apparizioni del "defunto" Bowman (che si materializza prima davanti agli occhi della moglie e poi all'interno della Discovery), sottolineate da contrappunti musicali che accrescono il senso di smarrimento dello spettatore.
Il finale, suggestivo ed evocativo, fornisce l'imbeccata per il successivo capitolo della saga, ossia il libro "2061: Odissea tre", nel quale Clarke esplorerà il "mondo proibito" di "2010", ossia il satellite Europa.
Si tratta, in verità, di uno scioglimento molto più "classico" rispetto all'indimenticabile, enigmatico finale del film di Kubrick, di cui del resto Peter Hyams non poteva pretendere di ricreare la magica, divina ambiguità.
La pellicola di Hyams, in definitiva, può definirsi un ottimo film di fantascienza, imperniato su una storia "forte", sull'oculato uso degli effetti speciali, su dialoghi fitti e incisivi. E illuminato, qua e là, da affascinanti bagliori metafisici. La parabola di Stanley Kubrick, per contro, era una poesia sfuggente e ipnotica sulla natura e il destino dell'essere umano, nella quale i pochi, indispensabili dialoghi spezzavano il grandioso lirismo del "silenzio" accompagnato dalle note di Johann Strauss, Richard Strauss e Gyorgy Ligeti.
E' romantico, d'altro canto, pensare che noi spettatori, nella nostra immaginazione, possiamo sempre rifiutare l'idea di "2010", e sognare che in realtà l'epopea della Discovery e di Bowman si fosse chiusa con l'entrata dell'astronauta nell'atmosfera gioviana, con il bimbo-delle-stelle di "2001"...
Senza bisogno, insomma, di un'appendice esegetica quale è, in definitiva, il film di Peter Hyams.
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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 01/02/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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