Recensione 50 e 50 regia di Jonathan Levine USA 2011
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Recensione 50 e 50 (2011)

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locandina del film 50 E 50

Immagine tratta dal film 50 E 50

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Il dolore, la malattia, la paura.

Scoprirsi malato è un'esperienza non facile da affrontare e difficile da gestire a tutte le età, a maggior ragione a 27 anni, quando hai ancora tutta la vita da vivere e tante cose da fare. Un evento che rischia di travolgere la vita e alterare precedenti equilibri psicologici e sociali.
Ciò determina una sensazione di progressivo deterioramento organico che induce nel malato l'idea di diversità e solitudine, se non si ha accanto qualcuno che lo possa aiutare a ritrovare gli equilibri spezzati.
Quando una persona si trova di fronte ad una diagnosi di malattia grave, la prima difficoltà è proprio nell'accettazione della malattia stessa, mentre l'adattamento alla sua nuova condizione comporta reazioni emotive che influenzeranno le sue relazioni, i suoi modi di agire, il suo modo di affrontare la vita.
Quando arriva la certezza, quando il timore si trasforma in terrore, quando si sente addosso la compassione degli altri, cambia la percezione del tempo e si trasfigura il senso della quotidianità. Tutti i problemi che si potevano avere prima spariscono di colpo e perdono la loro drammaticità di fronte alla tragedia che incombe e ingombra il cervello, che riesce solo a concentrarsi su di sé e sulla nuova drammatica realtà.
Ci vuole un grande sforzo e un grande aiuto per ricominciare, per quanto è possibile, a vivere e a coltivare la speranza.

Esattamente quello che succede ad Adam, il protagonista del film, quando si scopre malato di cancro e di avere 50% di probabilità di sopravvivere e 50% di morire.
Adam (interpretato da un grandissimo Joseph Gordon-Levitt) ha ventisette anni e conduce una vita normale, senza grandi colpi di scena: ha un ottimo lavoro come giornalista radiofonico; una bella casa a Seattle; un'avvenente fidanzata, Rachel, anche se un po' stronzetta, con la quale convive e un grandissimo amico del cuore, Kyle, con cui trascorre la maggior parte del tempo libero.
Ha anche, come tanti, una madre iperprotettiva, che deve badare al marito malato di Alzheimer, e una vita molto regolata e molto ordinata: footing al mattino con le cuffie alle orecchie, doccia rilassante al ritorno, colazione frugale ma equilibrata e poi di corsa per il lavoro.
Amante dell'ordine e delle regole, Adam, non beve e non fuma (e "non passa con il rosso e fa la raccolta differenziata"); ma ciò non gli impedisce, un giorno, di ammalarsi.
Tormentato da un insistente dolore alla schiena, un giorno si reca dal dottore, per sottoporsi ad una serie di analisi.
Il responso è di quelli che annichiliscono: una rara ma micidiale forma di cancro sta crescendo lungo la sua colonna vertebrale.

E' questo ciò che gli comunica, "molto professionalmente", il distaccato dottore, e le probabilità di guarigione sono del 50% Il che, visto da un'altra ottica, significa che ha 50% di probabilità di morire.
50 a 50.

"Perché proprio a me?" si chiede incredulo il ragazzo, "io faccio la raccolta differenziata".
Il dottore però non coglie l'assurdità dell'illogico interrogativo e comincia a prospettargli come sarà la sua vita futura: cure debilitanti, sedute prolungate e stressanti di chemioterapia e poi, forse, un difficile intervento chirurgico.
La sua vita, da perfezionista, subisce un crollo su tutti i fronti e si ritrova a dare un nuovo ordine alle cose, (niente più locali alla moda, niente più vernissage, niente piani per il futuro, solo cure chemioterapiche, sessioni di consulenza psicologica, strategie di sopravvivenza), mentre le persone a lui più vicine reagiscono in maniera contrastante:la fidanzata non riesce più nemmeno ad abbracciarlo e via via si fa sempre più distante fino a tradirlo con un artistoide; la madre si lascia sopraffare dall'ansia e non riesce più ad essere serena, ma mentre lo ricopre di attenzioni non smette di litigare con lui; l'amico, intanto, approfitta della condizione di Adam per fumare erba in libertà e impressionare giovani donne, per rimediare qualche scopata in giro; mentre lui non smette di cercare il grande amore ("non posso morire, sono ancora giovane e non ho ancora detto 'ti amo' a nessuna").
Nonostante tutte le cure, nonostante la chemio, Adam peggiora sempre più e si rende necessario un intervento chirurgico (toccante la scena del saluto alla famiglia prima dell'operazione dall'incerta riuscita) e il supporto di uno psicologo.
E così il ragazzo incontra Katherin, una giovanissima psicoterapeuta alle prime armi, che si dimostrerà più psicotica del paziente, quando, applicando alla lettera le nozioni apprese al corso di dottorando, sbaglierà tutto dal punto di vista professionale, ma si rivelerà capace di aiutarlo a dare nulla per scontato e che la vita può ricominciare, basta guardare il mondo con l'ottica giusta.
Tutto qui, perchè in fondo il film è racchiuso nel diverso modo con cui i protagonisti si trovano ad affrontare un evento drammatico, sicuramente inatteso, che li trova assolutamente impreparati: chi pecca di insensibilità e chi si mostra eccessivamente solerte. Tutti comunque saranno costretti a rivedere le proprie certezze e a riesaminare le proprie vite.

La storia raccontata nel nuovo film del newyorkese Jonathan Levine, (dopo l'interessante "Fa la cosa sbagliata"), ripercorre con toni inaspettatamente divertenti l'odissea di un giovane uomo, il quale, mentre lavorava sul set di uno show televisivo, scopre di essere malato di cancro alla spina dorsale.
Quell'uomo è Will Reiser, sceneggiatore del film, che ha pensato di rendere pubblica la sua storia, raccontando con un sorriso gli avvenimenti più dolorosi, ma anche gli aspetti più divertenti della sue esperienza di malato (forse perchè finita bene), affinchè la gente possa riuscire a parlare di una malattia, che, per quanto tragica, per quanto a volte incurabile, mostra sempre qualche lato di cui ridere (o almeno sorridere, a denti stretti).
Perchè, sarà un luogo comune, ma saper affrontare una malattia con uno smorzato ottimismo, a volte può essere una valida medicina (sarà poi vero?).

Ecco dunque l'ottimismo del protagonista, la sua instancabile voglia di esorcizzare la paura, il tentativo di non farsi abbattere dall'incertezza, sia nei momenti più difficili, sia quando qualche timido segnale sembra riaccendere le speranze.
Lui che ha tagliato i capelli per non vederli cadere, lui che non smette di lottare, mantenendo il sorriso e la serenità, che spesso mancano a coloro, con cui la vita è stata più generosa.
Certo, parlare così serio mantenendo il sorriso non è facile, come non è facile per Adam realizzare il lato oscuro della sua condizione: la presa di coscienza della serietà della sua malattia sarà per lui un'acquisizione lenta e quasi impersonale, tanto da non riuscire a provare alcuna emozione, nemmeno paura, per quello che gli sta succedendo, come se il tempo si fosse fermato un minuto prima della drammatica diagnosi medica.

Di storie sulle malattie se ne sono viste tante ultimamente, ma nessuna lo fa con la stessa sorprendente tenerezza, con la stessa grande naturalezza, con cui lo fa il film di Levine, soprattutto per il pacato equilibrio con il quale riesce a far sorridere, pur parlando di un argomento angoscioso, senza mai essere troppo commedia e senza mai essere troppo drammatico.
Si parla di cancro, si parla di morte, di insicurezza e di disagio, ma anche di voglia di vivere, di amicizia al maschile, di amore profondo, e lo si fa senza particolari compiacimenti, senza ruffianeria, ma con immediata semplicità, con ironia pungente e scorretta e spesso anche scurrile.
Un gioco un po' inconsueto, in cui i momenti drammatici e quelli più propriamente sarcastici, spesso convivono nella stessa scena o sono parte integrante l'uno all'altro, a differenza di altri lavori che tendono ad alternarli e a separarli categoricamente.
Ciò genera un blackout che disinnesca la retorica emotiva e quella del cinismo, per introiettarci in una prospettiva totalmente inaspettata, in cui il dolore non è esibito in modo banale, ma nella sua tangibilità, che non ci fa provare pietà per il protagonista, ma empatia e solidarietà.

Adam non è un eroe o un superuomo, ma una persona comune, reale, che agisce non differentemente da come agiscono le persone comuni nella vita reale davanti ad un dramma davvero comune.
Una persona che vive con l'incubo della malattia, letteralmente sconcertato di fronte agli eventi, non in grado di gestire da solo la dolorosa situazione.
Per questo è perfetta l'ironia che succeda proprio a lui. In ciò il film dimostra la grande sensibilità del regista nel saper raccontare il dramma di un malato grave senza risultare mai nè banale, nè troppo serioso.

Particolare cura viene posta nel descrivere il faticoso travaglio di dover accettare una situazione imprevista e imprevedibile, sia da parte del protagonista sia da parte delle persone che gli stanno accanto. Scoprirà così ciò che conta veramente nella vita, le persone su cui può fare affidamento, ma anche coloro che fuggono per sfuggire alle proprie responsabilità.
Con un finale, forse un po' troppo consolatorio, il film regala comunque momenti di grande commozione, forse prevedibili, ma non per questo meno emozionanti.
Tutto il resto è confezionato con pacato e composto equilibrio, senza caricare troppo di pathos la vicenda di Adam, ma neppure senza edulcorarla troppo.
La sceneggiatura è priva di eccessi caricaturali e ricca di gag intelligenti, ma anche capace di parlare con sincerità e naturalezza di un argomento difficilissimo, a corollario di una storia altrettanto difficile. E di riderci sopra.

Joseph Gordon-Levitt, come sempre bravissimo, ci offre una performance degna del suo talento drammatico. La sua capacità di entrare nel personaggio fa si che non interpreti Adam, lui è Adam.
Sul suo viso da bravo ragazzo passano tutte le sfumature delle sensazioni che lo attraversano nel doloroso percorso di accettazione della malattia: lo stupore, l'astrazione, l'incredulità, la rabbia, la rivalsa, l'accettazione.
Al suo fianco il talento comico di Seth Rogen, irresistibile nei panni dell'amico politicamente scorretto, incapace di prendere sul serio una situazione veramente tragica, ma spalla sicura su cui fare affidamento nei momenti più difficili.
Bryce Dallas Howard è la giovane fidanzata, un po' vigliacca, che non vuole lasciarsi coinvolgere e scappa davanti all'umano dolore; mentre Anna Kendrick è l'inesperta psicologa che regala al ragazzo la voglia di vivere e sperare nel futuro.
Come sempre gran mattatrice, Angelica Huston è la madre che, nella sua iperprotettività, invece di esorcizzare, drammatizza le cose e carica di ansie le preoccupazioni del figlio (bellissima la scena della tisana antitumorale, che corre, premurosa, a preparare al figlio).

Le scene che valgono il film: quando Adam si scopre malato, mentre risuonano le note, bellissime, di High e dry dei Radiohead; quando nel bagno scopre il libro "Come stare accanto ad un malato di cancro" che l'amico Kyle, poi non così superficiale, sta leggendo e sul quale ha preso alcuni appunti; i momenti in cui si trova a fare la chemio con una coppia di anziani signori, che gli offrono dolcetti alla marijuana.
In definita un film dolce e amaro in perfetto stile Sundance, che si fa ricordare, anche senza essere un capolavoro assoluto, per il modo inusuale di raccontare le tappe di un percorso - difficile da affrontare, ancora più difficile da vivere - che alimenta le nostre paure e le nostre fragilità e mette in discussione le nostre certezze di invulnerabilità.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 09/03/2012 16.23.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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