Voto Visitatori: | 5,90 / 10 (20 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
Milano, 2006. Una manciata di storie private s'intrecciano e si confondono, si rincorrono e si allontanano l'una con l'altra, e insieme raccontano (con straordinaria efficacia) pagine di cronaca e di vita quotidiana, dipingono all'unisono una credibile Italia contemporanea. È da un po' che non succedeva nel cinema italiano.
Come suo padre Luigi negli anni '70 ritraeva lucidamente una Milano grigia e operaia, di periferia e di disperate guerre della marginalità, Francesca Comencini ci racconta con estrema sobrietà una Milano odierna ancora più cupa e notturna, sazia e disperata nel suo borghese "infinito vuoto, infinito niente".
E' un freddo nichilismo che pervade tutto il film, che muove gli uomini ed è quel che resta fino alla fine. I più deboli soccombono, i pesci piccoli pagano colpe anche per quelli più grandi, che non pagheranno mai, anzi. Prevale la logica dello sfruttamento, dove quello della prostituzione è solo il modello più evidente e tangibile, emblematico per molti aspetti, se vogliamo, ma non certo l'unico, alla base dei rapporti umani.
Anche la condizione di bisogno viene sublimata dal nichilismo e dalla voglia di avere tutto e subito, di uscire dalla frustrazione e dall'anonimato del quotidiano. Le sensibilità non sono richieste: quando un barlume di umanità (di semplice interesse per il prossimo) affiora nel grigiore dell'egoismo viene persino rifiutato, con annesso invito all'indifferenza. Talvolta la sensibilità non viene neppure riconosciuta, o meglio, non viene creduta.
Ognuno porta con sé delle ombre, delle macchie: per quelli più sensibili è sicuramente un punto debole che può far vacillare e cadere; per gli squali rappresenta, normalmente, il principio della loro forza.
Materia del film, in termini più pratici, sono gli scandali finanziari degli ultimi anni, i loro intrecci strettissimi con la politica, le intercettazioni telefoniche da parte delle forze dell'ordine. Temi che la regista di "Mobbing" tratta senza morbosità e qualunquismo, senza chiosa intellettualistica, lasciando fluire la storia senza intervenire con stucchevoli o noiose, ripetitive sovrapposizioni ideologiche.
Valeria Golino si conferma - non c'era dubbio - come la migliore attrice italiana degli ultimi anni, con la sua versatilità, nel caso specifico, al servizio di un personaggio contraddittorio, forte e pieno di slanci ideali per un verso, quello del (sotto tutti gli aspetti) pubblico ufficiale; fragile e vacillante per un altro, quello della vita privata, vaga alla deriva.
Luca Zingaretti è molto credibile nell'interpretazione del cinico banchiere che muove le fila della finanza creativa e degli affari sporchi con la rispettabile faccia pulita del suo status di alto borghese, di famiglia (per bene) dilaniata all'interno dai conflitti tra l'egotismo personale e gli umani desideri di due donne: una moglie avvilita da una perdita impagabile, e una giovane amante, l'amica di famiglia Laura Chiatti, ancora una volta - come nel film di Sorrentino - mero oggetto di desiderio fisico, qui perduta nelle illusioni di un'aspirante starlette televisiva, "punita" materialmente con un atto sessuale freddo e animalesco, poi con la disillusione...
È quindi nei volti smarriti o duri e cinici, una delle chiavi di lettura del film, volti che esprimono sofferenze e ambizioni, frustrazioni e speranze, quasi sempre disillusioni. I volti segnati dal passato e dal presente di Battiston e della sua nuova compagna prostituta dell'est, che molto si attendono dal futuro, ma senza un vero e proprio slancio, quasi consapevoli della propria inconsistenza di fronte alla realtà.
O il volto (piccolo) borghese dell'ex grande fratello Luca Argentero (Gerry, da Geremia... come il lercio protagonista de "L'Amico di famiglia"...), perfetto nel ruolo di un giovane magazziniere frustrato aspirante ricco col denaro facile e sporco: la Comencini sembra sceglierlo proprio per quella categoria che egli rappresenta: la reality-show-generation.
Ed è a un volto, significativo, che è dedicato il finale, amaro e straordinario, di "A casa nostra": quello di carta del politico (uno "stereotipato" quanto efficace Bebo Storti, squallido borghese della Milano che conta: ogni riferimento a persone reali è puramente casuale...), fissato sui manifesti elettorali a campeggiare tronfio sui muri della città "assediata", dopo l'uscita di scena di quelli (momentaneamente?) sconfitti o beffardi della guardia Golino e del ladro Zingaretti. Un finale che si accosta a quello mefistofelico dell'ultimo Moretti, senza tuttavia la teatralizzazione wellesiana autoreferenziale dell'ex girotondino.
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Recensione a cura di gerardo - aggiornata al 05/01/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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