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Un'ipotesi molto diffusa ci induce a credere che nel passato non ci siano state donne con la stessa estensione di conoscenze, lo stesso spirito, la stessa sagacia e la stessa forza di ragionamento degli uomini. A riprova dell'inferiorità del loro sesso, si diceva che nessuna donna aveva fatto scoperte importanti nelle scienze, aveva dato prova di genio nelle lettere, nelle arti, nella tecnologia, ecc.
E invece no, non è vero, perché si scopre che ci sono state donne molto intelligenti, solo che non ce l'hanno mai detto: i libri di storia non l’hanno mai scritto, la saggezza popolare non ce l'ha tramandato, le autorità ecclesiastiche l'hanno sempre censurato, gli insegnanti, i media, la cultura ufficiale l'hanno sempre taciuto.
E invece ci furono, solo che, molto spesso, molte hanno dovuto pagare con la vita questa loro capacità, oppure non sono state messe in condizioni di rendere manifesto il loro sapere.
C'è voluto il genio di Alejandro Amenabar per far emergere dall'oblio una di queste donne, forse la più significativa, forse la più capace, sicuramente la più geniale: quella Ipazia di Alessandria, filosofa ed astronoma di scuola neoplatonica.
Ipazia o Hypatia, figlia di Teone d'Alessandria, vissuta tra la seconda metà del IV e i primi del V sec. d.c. e morta per difendere la libertà di parola e di pensiero e la forza della ragione.
Lei, donna in una società fortemente maschilista e misogina, accecata dai conflitti religiosi. Una libertà, la sua, che affondava le sue radici nelle convinzioni scientifiche e nell'amore per il sapere, che l'hanno resa immune da qualsiasi forma di devozione religiosa e aliena da qualsiasi forma di coinvolgimento sentimentale.
Fu astronoma e insegnante, matematica e filosofa oltre ad essere, come viene tramandato (e come Amenabar ce la rappresenta) una donna di grande fascino e una libera pensatrice. Scrisse numerosi saggi matematici e filosofici, diresse il Serapeo (il museo e la biblioteca di Alessandria) e le vengono attribuite le invenzioni dell'astrolabio e dell'idroscopio.
All'epoca dei fatti narrati Alessandria era sotto il dominio dell'Impero Romano di Teodosio e costituiva un crocevia di spiritualità differenti, ma era anche un vero e proprio faro della cultura, il cui epicentro risiedeva nel Serapeo, la biblioteca che custodiva il sapere del mondo, racchiuso nella più vasta collezione di testi filosofici, scientifici ed astronomici dell'antichità. Alessandria però era anche sede di una grossa, e oggi impensabile, contraddizione, in cui convivevano il libero pensiero e la schiavitù.
Figlia del Direttore del Serapeo, che le aveva inculcato l'amore per la conoscenza e resa libera dai condizionamenti maschili, Ipazia aveva il compito di insegnare ai giovani di tutte le estrazioni sociali a "guardare il cielo" e ad essere liberi nella tolleranza. Tra questi il giovane e passionale schiavo Davos, da sempre attratto dalla sua bellezza, e il solido e razionale Oreste, che diverrà Prefetto della città, entrambi innamorati di lei.
Fiera del suo sapere e orgogliosa di essersi conquistata la stima del mondo scientifico, appannaggio esclusivo degli uomini, Ipazia sarà vittima dell'intolleranza del protocristianesimo e della misoginia dei suoi rappresentanti terreni.
Col tempo Alessandria divenne teatro delle lotte di tre religioni che si disputavano la supremazia ideologica e il potere temporale: il paganesimo con il culto di Serapide, il cristianesimo e l'ebraismo.
Quando all’Agorà cominceranno i primi scontri tra cristiani e pagani, Ipazia farà di tutto per rimanerne estranea. Ma poi il numero dei cristiani salirà vertiginosamente, vuoi per la presa che esercitava tra gli umili e gli schiavi (anche Davos ne sarà attratto), che vedevano in essa un'occasione di riscatto, vuoi perchè un certo numero di pagani, compresi i Senatori, decisero di convertirsi per compiacere l'Imperatore.
È qui che entrano in scena i monaci parabolani, integralisti fedeli al terribile vescovo Cirillo, i quali, invece di diffondere le parole della Bibbia, cominciano ad usare la violenza sia verso i non credenti, per assoggettarli al loro credo, sia verso gli ebrei, accusati di essere gli assassini del loro Dio.
Composti principalmente dalle fasce sociali più umili, i parabolani, incitati da Cirillo, trovano nel messaggio cristiano di uguaglianza di tutti gli uomini un motivo di riscatto e di vendetta verso le classi pagane dominanti. Il credo c'entra poco, quello che spinge questa massa di diseredati a seminare violenza e morte è la brama di potere e un irrefrenabile desiderio di vendetta. Quando riusciranno ad espugnare e bruciare il Serapeo e tutte le opere in esso contenute cominceranno una sistematica opera di eliminazione fisica di tutti coloro che rifiutano la conversione, e a pretendere dai credenti moderati l'accettazione di regole rigidamente integraliste, come la sottomissione delle donne.
Chi ne rimarrà travolta, sarà principalmente Ipazia, che, accusata di stregoneria e di meretricio, pagherà nel modo più tragico il suo essere donna libera dai condizionamenti dei poteri religiosi dell'epoca e colta in una società che relegava le donne a ruoli di inferiorità.
E qui fa la sua comparsa per la prima volta la parola "strega", che tante vittime mieterà nei secoli a venire.
Arrivata in Italia con un anno di ritardo rispetto alla presentazione al Festival di Cannes, e dopo essere uscita un po' in tutto il mondo, la pellicola di Amenabar, che ha rischiato di non essere mai proiettata nelle nostre sale (non si sa bene su pressione di chi, o forse si sa fin troppo bene) a causa dei fatti storici narrati (ricordiamo che Amenabar è l'autore de "Il mare dentro", che ha fatto arrabbiare il Vaticano a causa delle sue tesi sull'eutanasia), segue i canoni classici dei kolossal storici, senza peraltro rinunciare al suo innato gusto per la raffinatezza stilistica e per l'estetica delle immagini, già ampiamente espressi nelle sue opere precedenti.
"Agorà" rimane comunque un film che lancia un duro atto d'accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi e contro tutti gli estremismi, con particolare attenzione al nascente cristianesimo e al suo messaggio egualitario, che non poteva non fare proseliti in una società rigidamente divisa in classi sociali, e un'economia che si reggeva sulla schiavitù.
Il risentimento degli ultimi si mischia dunque alla fede cristiana, che voleva gli uomini tutti uguali purchè appartenenti al suo credo, ed esplode in un atroce atto di intolleranza verso chi non accetta questa visione del mondo, e dunque anche verso la cultura che ne era l'espressione massima.
Protagonista dell'opera, dunque, non è Ipazia e il suo sacrificio e neppure la sua rivalutazione dal punto di vista storico, quanto piuttosto il fondamentalismo religioso, che trova nel protocristianesimo uno dei suoi massimi apici di brutalità, quando pretende di sottomettere gli altri alla propria fede.
Ipazia aveva tutte le caratteristiche per essere odiata dai cristiani: era donna, pagana, studiosa di grande fama e di grande carisma e guida della scuola di Alessandria, dove si formavano culturalmente le coscienze critiche degli uomini, che nei secoli li ha fatti evolvere e progredire. La sua cultura e il suo ascendente umiliavano il mondo maschile, fino a quando non entrò in confitto con la lotta per il potere condotta dal vescovo Cirillo e soprattutto con la sua convinzione sull'inferiorità della donna. Convinzione magistralmente rappresentata da Amenabar nella straordinaria scena della predica del vescovo, basata su una sua personale e ambigua interpretazione della lettera di San Paolo a Timoteo, in cui si afferma:
"La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva, e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna, che essendo ingannata, fu colpevole di" trasgressione."
Amenabar schiva il rischio di scadere nella retorica del neopeplum (alla "Troy" di Petersen o all'"Alexander" di Stone, tanto per intenderci) e si fa portavoce di tematiche che rimangono attuali dopo oltre duemila anni e che si riflettono sulla posizione delle donne nei vari campi lavorativi, dove non hanno ancora pienamente raggiunto la possibilità di una vera e completa equiparazione con gli uomini; dall'altro lato, impartisce una lezione di tolleranza alla società contemporanea, affinché non commetta gli stessi errori del passato e indicando un percorso di pluralità di pensiero e di accettazione di tutti coloro che non la pensano allo stesso modo, che non conduce alla paura dell'altro e all'incapacità di vivere nel rispetto della vita umana.
Geniale si dimostra Amenabar sia nella ricostruzione del periodo storico e nella rappresentazione delle tensioni, che culminano nello scempio della distruzione della biblioteca, sia quando si impone di collocare la vicenda in un contesto simbolico e realistico allo stesso tempo, come quando con la macchina da presa si sposta dalla terra, sospesa nell'infinito, e si posa sulla città di Alessandria, mentre, inquadrata dall'alto, Ipazia cerca di capire i movimenti di rotazione del pianeta attorno al sole; così come emozionanti appaiono le riprese dall'alto delle scene di violenza e di distruzione, che poi si capovolgono e si allontanano dalla superficie terrestre, per contrapporre un parallelismo negativo tra l'armonia dell'universo e l'ignominia dell'uomo.
Altro momento molto significativo è quando Amenabar fa leggere a Cirillo, durante una predica inferocita, la lettera di San Paolo sull'inferiorità della donna, che sancisce, in pratica, la condanna a morte di Ipazia.
Ieri come oggi troppa paura del pensiero delle donne, troppa paura della libertà delle donne.
Amenabar si è concesso una sola licenza storica nella figura del passionale Davos (di cui non si hanno notizie storiche e quindi probabilmente mai esistito), lo schiavo disperatamente innamorato di Ipazia, che dona una morte meno sofferta alla sua padrona per risparmiarle (e risparmiarci) l'oscenità e le sofferenze della lapidazione a cui il vescovo di Alessandria l'aveva condannata. Personaggio creato dallo sceneggiatore forse per umanizzare ancora di più la figura di Ipazia, una donna così straordinariamente anticipatrice dei tempi, e per alleviarne la tragica drammaticità della sua fine.
Ipazia è magistralmente interpretata dal volto severo e bellissimo del premio Oscar Rachel Weisz, assolutamente perfetta nel rappresentare l'anelito di conoscenze e l'afflizione del dubbio, che alimentava il suo vivere di donna libera e illuminata. Al suo fianco troviamo il giovane Max Minghella (figlio dello scomparso regista Anthony Minghella), al suo primo ruolo importante, ma già in grado di affrontare un personaggio complesso e tormentato come quello dello schiavo Davos.
Oscar Isaac e Rupert Evans sono rispettivamente Oreste e Sinesio, entrambi ex allievi di Ipazia poi divenuti l'uno Prefetto romano l'altro vescovo di Cirene.
Una didascalia prima dello scorrere dei titoli di coda ci informa che Cirillo, alla sua morte, sarà fatto santo e dottore della chiesa.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 04/05/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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