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"Dopo che gli spagnoli avevano conquistato e saccheggiato il regno degli Inca, gli Indios hanno inventato la leggenda del paese dorato Eldorado, che si troverebbe anche nelle impenetrabili paludi degli affluenti del Rio delle Amazzoni. Alla fine del 1560, una grossa spedizione di avventurieri spagnoli, sotto la guida di Gonzaro Pizzarro, partì per le montagne peruviane. L'unica testimonianza rimasta della spedizione svanita nel nulla è il diario del frate Gaspar De Corvajal".
Con questa prefazione insolitamente Kubrickiana (anche se l'Odissea temporale di Kubrick ebbe la sua "premessa" nell'epilogo finale) Werner Herzog mette a nudo il riflesso incondizionato del cinema nella sua forma (falsamente) letteraria e storica. Il rigore temporale di "Aguirre", ma anche la sua apparente "veridicità" storica non fanno altro che catturare negli spettatori la convinzione che il tutto sia credibile e realmente accaduto, formulando così l'inquieta aspettativa sul mezzo cinematografico come visione "storica" e non soltanto "metaforica", con un fideismo che riusciva a catturare quei pochi ancora convinti dell'utilità culturale di un certo cinema. In effetti, proprio per questo paradosso, Herzog riesce a decodificare il linguaggio cinematografico al punto che "Aguirre" potrebbe benissimo essere scambiato non per un film d'avventura, ma di fantascienza. E probabilmente a modo suo lo è: esattamente come la dichiarazione dello stesso regista su Kinski ("E' l'ultimo interprete espressionista del cinema muto").
"Aguirre", costato una cifra irrilevante anche per l'epoca (350.000 dollari), oltre a vantare una serie di traversie sulle difficili riprese del film, è un progetto in cui il realismo lirico del cinema si sposa a una serie di falsità (ma sarebbe logico parlare di "leggende") riguardanti lo stesso script. Prima di tutto, la verità (?) sul celebre diario di Gaspar De Corvajal, che non ha affatto ispirato il film come si vorrebbe credere. L'idea di "Aguirre" prende spunto unicamente da un libro d'avventure per ragazzi, mentre sulla figura del personaggio che dà il nome al film esistevano non più di quindici documenti. Esistono delle verità accertate (la figura del Re, ispirato a un documento realmente esistito su Filippo II di Castiglia) e altre che diventano il pretesto per Herzog di "raccontare" la follia e la coercizione di un'uomo che, attraverso il Potere che si dà, cerca vanamente di ribellarsi al ricatto "occulto" della natura. In ogni caso, la spedizione è realmente avvenuta, ma Gaspar De Carvajal, per esempio, nella realtà non vi ha partecipato. I "diari" non appartengono pertanto al frate, ma furono scritti durante una spedizione di Oriana, il primo navigatore sul Rio delle Amazzoni.
"Aguirre" esibisce pertanto una (rara) capacità di sollecitare lo spettatore a una ricerca storica e cronologica quasi "utopica" e per questo perfettamente coerente con il senso del film e con l'odissea dei suoi personaggi. Non è forse già innovativo l'incipit della prefazione nel 1972, in notevole anticipo con i tempi e con il cinema contemporaneo, quando i trailer si potevano solo raccontare e nessuno, tranne pochissimi, lo faceva? Ma non sono i soli elementi di novità di un film che ancora oggi lascia interdetti, spiazzati da questa capacità di "comunicare" l'Onnipotenza umana in tutte le sue forme, e al tempo stesso lo struggente senso di sconfitta precognitiva di quest'umanità soggiogata dalla propria ambizione.
L'elemento "primordiale" è ampiamente suggerito da un film meditativo, capace di mettere in rilievo i meccanismi di potere che "guidano" un solo uomo, un sordido "animale" che insegue il suo Eldorado nonostante la scia di morte che lascia attorno a sè, incapace di sostenere ed affrontare il peso enorme della sconfitta e della resa. E' proprio questo elemento "dissonante" a suggerire quanto grande e disperato sia lo spirito umano davanti alla parabola di un mondo incontaminato che regge - nella sua crudele e poetica preservazione - la sua forza inconciliabile con la natura umana.
Il "furore di Dio" è Klaus Kinski, reduce dal suo controverso "Jesus" nei teatri, l'unico attore al mondo in grado di penetrare il personaggio e "sottometterlo" alla sua ingombrante forza scenica, e al suo Essere o non Essere di Shakesperiana memoria. Errore: se Kinski è Aguirre anche fuori dallo schermo, almeno nel massimalismo della propria presunzione, Herzog si è limitato (cosa che non è riuscita a molti registi che l'hanno diretto) a toccare alcuni punti nevralgici della sua complessa personalità e "lasciarlo lordare il proprio Io".
Più che egocentrismo smisurato, quello di Kinski è la rara vocazione di un'artista che ama esibire la sua disperazione (o frustazione), mettendo la follia come atto estremo (sacrificio) dell'attore che si ferisce e distrugge offrendo il suo immenso talento. Questa "vocazione" è sintomatica sia della celata empatia tra Kinski e Herzog, sia dei difficili rapporti di Kinski nel set del film, culminati con una minaccia di morte dello stesso regista ("Avrei voluto veramente ucciderlo") e, guardacaso, primo di un fervido sodalizio che consta altre tappe fondamentali del cinema ("Woyzeck", "Nosferatu", "Fitzcarraldo", "Cobra verde"). La bucolicità proverbiale del regista e la febbrile, disperata e degenerante vitalità di Kinski sono in realtà due facce della stessa medaglia: c'è solo l'elemento "irrazionale" a tenere "divisi" due umanità che in realtà si cercano costantemente, desiderando ognuno essere nel ruolo e nel corpo dell'altro, o semplicemente condividendone le ragioni e le reazioni. Una cosa è certa: la visione di "Aguirre" non può prescindere dal rapporto tra l'attore principale e il regista, essendo complementare alla vicenda del film e al senso inequivocabile che trasmette negli spettatori.
"TU FAI SCORRERE LA VITA DEGLI UOMINI COME UN FIUME, E I TUOI GIORNI NON AVRANNO FINE"
Anche "Aguirre", del resto, come rappresentazione dell'Utopia, diventa un film-chiave per l'ortodossia cronologico- temporale con cui è stato girato: 450 comparse Indios e parecchi comprimari per un tempo relativamente molto breve (tra i primi di Gennaio e la fine di Febbraio). Oltre a uno spirito nichilista di sconfitta perenne che si respira nel film fin dalle prime immagini (decisamente antitetico a quello dei classici film di genere del cinema americano ed europeo), la storia viene riletta attraverso la contemporaneità di una fiction, senza alcuna concessione o modifica tecnica del cinema tradizionale, con un realismo che celebra la fine prematura del cinema adulterato degli studios e delle imposizioni produttive. Lo spettatore diventa a suo modo "protagonista attivo" di una Catarsi, destinata a mutare umore ad ogni inquadratura, finendo con l'assorbire quello che il linguaggio cinematografico attuale ambisce a catturare "nell'interiorità" della visione. C'è indubbiamente qualcosa del cinema di Bresson, se non altro la capacità di Herzog di colpire attraverso minuziose tracce che servono a riscoprire il piacere del cinema come esperienza anche "esplorativa" di conoscenza diretta non della storia in sè, ma delle ragioni che portano la storia a compiersi.
Il primo, grande fotogramma del film, mentre scorrono ancora i titoli di presentazione, è la "diretta" rappresentazione del primo giorno delle riprese, con la troupe e il cast quasi al completo (personaggi, comprimari e comparse indios comprese) atti ad attraversare i pendii nelle vicinanze del Machu Pichu verso il fiume Urubamba: è una sequenza a dir poco indimenticabile, dove lo spettatore avverte l'abissale vertigine dei luoghi, e al tempo stesso atto a contemplare la strana alleanza meteorica tra la nebbia celere a diradarsi e un'improvviso squarcio di sole (...) E basterebbero già queste prime immagini per raccontare le riprese del film, la cui riuscita è frutto anche di un'alleanza "magica" con la natura e l'ambiente della foresta amazzonica, e/o di una serie di fatalità e coincidenze che hanno avuto un ascendente di grande rilievo nella realizzazione dell'opera. E proprio questa strada tracciata da Herzog, di girare "in presa diretta" e senza uno script già scritto in ogni sua parte, questo modo di montare e rimontare ogni sequenza a seconda delle circostanze, gli ha valso negli anni parecchi estimatori e qualche critica. In realtà "Aguirre" è un film che coinvolge proprio per la sua imprevedibilità narrativa, come un crocevia temporale che sa come arriverà al suo epilogo, ma non "come" e "in quale modo". In un certo senso al posto dell'inventato diario di Gaspar De Carvajal, sarà lo stesso Herzog a scrivere un "diario visivo" dell'esperienza del film, mettendo a nudo la sua proverbiale riluttanza verso gli script imposti dai produttori, convinto che ciascun personaggio possa essere modificato gradualmente, come lo stesso film di cui fa parte.
Girato quasi nella stessa stagione della spedizione (che si svolse a Dicembre, mentre le riprese del film hanno inizio l'8 Gennaio) "Aguirre" racconta dunque la spedizione dei conquistadores spagnoli alla ricerca del mitico Eldorado nella foresta amazzonica, attraversando fiumi e affluenti a bordo di zattere, e delle incredibili disavventure che portano all'annientamento del gruppo, all'estinzione della spedizione, e alla fine di tutti i sogni.
"LA FORTUNA ARRIDE AI CORAGGIOSI, E SPUTA AI CODARDI"
"La Chiesa è sempre stata dalla parte dei più forti" con queste parole Herzog spiega per quale ragione egli ha addattato la presenza del frate Gaspar De Carvajal fino a renderlo narratore di una spedizione alla quale il "vero" De Carvajal non ha partecipato. La figura del frate in effetti è ambivalente, e diventa sempre più cinica e spregiudicata, fino a dimostrare un'ambizione inferiore forse solo a quella del protagonista del film.
Figura nichilista fiera e sanguinaria, quella di Aguirre, ma anch'essa determinata da una serie di incongruenze, o meglio aspetti psicologici che mostrano lati ben diversi da quelli che solitamente prevalgono per il resto del film: lo vediamo, per esempio, affettuoso padre di una bellissima figlia ("Solo tu puoi aiutarci" gli dice lei a un certo punto). Ma è anche l'uomo che si autoelegge comandante, spargendo sangue ovunque,in primis sull'uomo-capo della spedizione originaria che voleva tornare indietro, mettendo a repentaglio la vita di tutti per il suo famigerato obiettivo. Come direbbe oggi De Oliveira, "più l'uomo ambisce a conquistare invano la propria gloria, e maggiore sarà la sua solitudine al momento di celebrare un'insostenibile sconfitta".
Altri personaggi nel film lasciano il segno: Armando, che viene fatto prigioniero, e Ursua, processato blandamente dallo stesso Aguirre dove viene ordinata dal Comandante la sua morte. Il film diventa così l'esaltazione nefasta di un potere che sfida e distrugge i propri oppositori dall'interno, anche a discapito delle proprie utilità.
Francis Ford Coppola ha dichiarato che senza l'influenza di "Aguirre" probabilmente il suo "Apocalypse now" avrebbe avuto un esito diverso. Non è difficile capire il perchè: in molte sequenze il nemico è invisibile, sedato o manovrato anche dalle leggi della natura, è come un mondo a parte che osserva, prima di agire. E' lo stesso territorio in cui si muove Coppola (fra l'altro in un'altro film famoso per le sue vicissitudini in fase di lavorazione) nel suo sabba Conradiano: l'inquietante monotonia di una natura selvaggia e incontaminata dove implode la mano dell'uomo atto a sfidarla. Tra le sequenze memorabili vanno segnalate: uno schiavo di colore che viene fatto spogliare per spaventare gli indios del fiume, un villaggio messo a fuoco, un uomo ucciso "in silenzio" da una freccia, una coppia di indios, uomo e donna, a bordo di una canoa e uno di loro che dice "il libro non parla" riferendosi al testo sacro della Bibbia.
"SE IO VOGLIO CHE GLI UCCELLI MORTI CANTINO, ALLORA GLI UCCELLI CADRANNO STECCHITI DAGLI ALBERI"
Privilegiando l'attesa più che l'azione, Herzog si prepara al suo formidabile epilogo. Ed è come se l'uomo di cui stiamo parlando, nella persona di Klaus Kinski, possa trovare inutilmente segni di speranza ("Darò vita alla dinastia più pura che esista sulla terra") per molto tempo ancora, oltre la vita e la morte, e oltre i resti di pellicola di questo film.
Se la natura ha fondamentalmente le più svariate risorse per ribellarsi all'umanità (v. finale) l'amarezza che dilania Aguirre nelle ultime immagini del film è tale che è impossibile non provare un'intensa empatia nei suoi confronti.
La rivista "Time" ha inserito il film tra le cento opere migliori della storia del cinema: Laurenz Straub (produttore e distributore del film) sarebbe sicuramente d'accordo. Quel che è certo è che, davanti alla proverbiale distruzione del Sogno, nessuno al cinema aveva raccontato meglio la resa impellente di questo eterno e contrastato "assurgere a divinità eroica" tra le pieghe dell'umanità. "Ora devo abbassare lo sguardo, io ero un principe" dirà un Indio prigioniero. Ed è forse così che ci sentiamo, da spettatori, dopo questo film.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 28/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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