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Ci sono film che hanno il potere di intrigarti allo stesso modo con cui possono irritare.
Ne abbiamo avuto diversi esempi, di recente, con l'irrazionale e "gonfiato" ritorno al cinema di Coppola, con la sublimazione visiva dei blockbuster americani o, soprattutto, con opere indubbiamente lusinghiere dal punto di vista dello script ma capaci in più occasioni di essere "ricattatorie".
Il nuovo film di Fatih Akin, cineasta di origine turca nato ad Amburgo, sembra avere tutti i crismi per farsi amare incondizionatamente da una vasta gamma di spettatori, e questo potrebbe essere un limite più che una qualità.
Lo stesso script, che ancora una volta sottolinea il confronto sociale ed il rapporto stretto tra la Germania e la Turchia (sempre in bilico tra sprazzi di fanatismo religioso e tendenze occidentali, quest'ultima) sembra "costruito" da un abile regista che ha radicalmente sposato proprio la causa Europeista nel suo cinema.
Insomma, anche se in due ore di pellicola emerge uno squarcio con una mdp fissa e statica (e comunque alla maniera di Eytan Fox), siamo più dalle parti di Fassbinder che da quelle di Kiarostami o Guney.
"Ai confini del paradiso" (o anche "Auf der anderen seite", ovvero "Dall'altra parte" come suggerisce il titolo della distribuzione tedesca) racconta la vicenda di un anziano turco, Alì, che vive a Brema (Germania) con il figlio Nejat, noto insegnante. L'uomo si innamora di una prostituta anch'essa turca, Yeter, che ammette di fare questo mestiere esclusivamente per mantenere la figlia Ayten, che vive a Istanbul, agli studi. L'anziano, vedovo e solo, le propone di andare a vivere da lui, ma dopo un infarto che ha rischiato di ucciderlo, l'uomo si ubriaca e picchia la donna che vuole lasciarlo, provocandone accidentalmente la morte.
A questo punto il vecchio finisce in prigione per omicidio e il figlio Nejat, che rompe ogni rapporto con lui, lascia il lavoro di docente e parte per la Turchia alla ricerca della "misteriosa" figlia di Yeter.
Acquista una libreria nella città "da 20 milioni di abitanti" (in realtà la vastissima Istanbul ne consta circa 15) e ne diventa proprietario, affissando sui muri della città foto della ragazza.
In realtà Ayten, appartenente a un gruppo antigovernativo e post- rivoluzionario (il Pkk?) riesce a sfuggire a una retata della polizia turca, emigra con un passaporto falso per la Germania e fa amicizia con una studentessa tedesca, Lotte, con cui nasce una relazione saffica.
Fermata dalla polizia ed espulsa dalla Germania con un foglio di via la ragazza finisce in un penitenziario femminile turco, mentre Lotte parte, contro il volere della madre, per la Turchia, allo scopo di aiutarla.
Ma tutto ciò avrà delle conseguenze terribili, e cambierà (come si dice spesso a riguardo) la vita dei protagonisti.
La critica internazionale ha fatto riferimento a Fassbinder come influenza primaria di questo film, e non a caso la rediviva Hanna Schygulla, Icona del regista tedesco, è qui presente nel ruolo non facile della madre di Lotte: figura ambivalente, ex-barricadiera per i diritti civili, ma non abbastanza, comunque, per la rivelazione pasionaria del morfologico, personale e tardivo idealismo del suo personaggio.
E' una fra le tante contraddizioni di un film che resta persuasivo soltanto nella parte centrale, dove prevale la difficile condizione di Ayten ricercata come "terrorista" e i rapporti talvolta tesi con i suoi compagni di sventura, o certe sfumature del rapporto virginale (o femminista?) con (Char)lotte.
Per conservare una sua persuasività come affresco sociale su un mondo diviso benchè ancorato agli spettri delle colpe passate o recenti di due nazioni (cfr. la Germania e il Nazismo, la Turchia e il dramma del Kurdistan), e quindi legitti-mato dal suo stesso futuro, la storia rimane parecchio in superficie: la stessa scelta "ideologica" di Ayten non è narrata con la profondità di un Amos Gitai, per esempio, e sembra costituire l'ennesimo tassello (frammento?) di un puzzle che troppo prudentemente manda a casa gli spettatori con il sorriso sulle labbra (o la soddisfazione latente per aver assistito a un'opera di tutto rispetto).
Nè, del resto, è del tutto persuasiva la prima parte del film, in cui, tra moniti bonsai dispensati sul fanatismo islamico (si vedano i due turchi che minacciano Yeter invitando a pentirsi del suo "peccato morale") ed improvvisi colpi di scena, resiste un certo faticoso schematismo.
Il vero limite del film sta proprio in questo: c'è la sensazione che gli avvenimen-ti prendano il sopravvento con troppo zelo, e paradossalmente senza una vera emotività che non sia quella di colpi di scena già previsti dalla regia di Akin.
Qualche critico che ha fatto riferimento a Kieslowski dovrebbe soppesare certi paragoni: se, per esempio, la ricerca di una spiritualità comune trova la sua completezza nel rapporto universale del dolore ("Come ha fatto a capire subito che ero io?" - "Lei è la persona più triste qui dentro") o, come nella vicenda di Ibrahim (Abramo) raccontata da Nejat, e ancora nella continuità di un codice morale (pasionario?) prestabilito, è facile incorrere nel qualunquismo o comunque in una disinvolta superficialità.
Ed è proprio lo schematismo del film ad adattarsi a un'approccio stilistico che rischia di precipitare nel fotoromanzo anche se, nobilmente, insegue la lezione di Fassbinder.
"Ai confini del paradiso" è un titolo appropriato (fin troppo) per un'opera che cerca inutilmente di sfuggire dal proprio percorso filosofico e culturale, cercando in più parti di semplificare e, tutto sommato, di giustificare una serie di eventi e scelte con una sorta di visione consolatoria dei contrasti politici, umani ed etnici tra Europa e Islam.
E lo stesso problema si ripresenta anche quando il regista immortala, in due sequenze ambivalenti e analoghe, due bare in transferta tra la Germania e la Turchia, e viceversa.
Il film di Akin, regista di indubbie capacità (v. "La sposa turca") risulta pertanto un'occasione parzialmente sprecata, incapace di focalizzarsi su pochi obiettivi e dispersivo nel suo bisogno Bignamico di raccontare e raccontarsi, e di farsi vedere dallo spettatore in una veste fin troppo accattivante: troppe situazioni "telefonate" (si veda Lotte che va a Istanbul e trova una stanza proprio a casa di Nejat, nonostante lo stesso non sia mai riuscito a cercare Ayten) e, purtuttavia, c'è anche un'indiscussa capacità di acquisire un ruolo specifico presso i cineasti più popolari presso il pubblico (giova ripetere: è una qualità o un limite?).
Film discontinuo, "Ai confini del paradiso" vanta comunque indubbie qualità formali: su tutti, la fotografia di Istanbul, vero e proprio "baluardo sacro dell'incrocio delle razze degli uomini" (per dirla con una celebre canzone dei Litfiba) e terra di contraddizioni, perpetuata come solo Wenders saprebbe fare, e l'ottima performance delle attrici principali: su tutte, Patrycia Ziolkowska, nei panni di Lotte, sorta di Mimsy Farmer del Ventunesimo Secolo di cui sicuramente sentiremo ancora parlare.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 20/11/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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