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Voto Recensore: | 7,00 / 10 | ||
"La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi".
Così ha scritto Oscar Wilde nei suoi Aforismi. E questo vale anche per il cinema.
Vi sono pellicole inossidabili, capaci di resistere al tempo e di sopravvivere alle mode. Altre, invece, possono avere un grande exploit, riscotendo ampi consensi sia di pubblico, sia di critica, ma sono inesorabilmente destinate a tramontare.
A discapito del proprio titolo, una pellicola che resterà per sempre fra i capolavori della storia del cinema è "Sunset Boulevard" diretto dal grande Billy Wilder. È a questa pellicola che Alan Ball sembra strizzare l'occhio scrivendo la sceneggiatura di "American Beauty".
Infatti, proprio come Joe Gills, interpretato da uno straordinario William Holden, nel capolavoro di Wilder ci racconta la propria storia da morto, allo stesso modo Lester Burnham (Kevin Spacey) ci narra gli accadimenti dei suoi ultimi mesi di vita. La sola differenza narrativa consta del fatto che, mentre sappiamo di che cosa sia morto Gills, ignoriamo che cosa sia accaduto a Burnham.
Quella di "American Beauty" è stata la cronaca di un successo annunciato. Otto candidature ai Premi Oscar e ben cinque statuette vinte: miglior film, migliore regia (Sam Mendes), miglior attore protagonista (Kevin Spacey), miglior sceneggiatura originale (Alan Ball), miglior fotografia (Conrad L. Hall).
Nel recensire dopo otto anni dalla sua uscita una pellicola, che si presenta con tali credenziali e che è accompagnata da un visibilio di critiche, di recensioni e di commenti entusiastici, alcuni dei quali gridano al capolavoro, ci si trova decisamente in una posizione di impasse, specie se ci si vuole discostare da tale opinione comune e consolidata.
"American Beauty" è un film discreto, ma decisamente sopravvalutato.
Per giustificare tale affermazione risulta necessario scomporre l'analisi del film su due piani ben distinti.
Da un punto di vista tecnico ed artistico il film è molto buono.
Il suo primo e più immediato punto di forza è l'attore protagonista.
Kevin Spacey regala al pubblico un'interpretazione di gran classe e di singolare intensità. Egli conferisce al personaggio di Lester Burnham, quarantenne in crisi d'identità che si scopre ancora capace di sognare e di vivere i propri sogni, uno spessore e una profondità emotiva capaci d'instaurare immediatamente un forte legame empatico con lo spettatore. Il suo sorriso amaro da eterno perdente, il suo muoversi in sordina strisciando quasi ai margini di una società che non lo ama e che lui a sua volta vive in modo oppressivo, il suo sguardo sempre attento, triste ma vivace, remissivo ma intenso, trasmettono tutta la forza del desiderio di vivere in piena libertà e in piena armonia con se stessi e con i propri desideri.
Non v'è nessun dubbio che si sia assolutamente meritato la vittoria nella corsa all'Oscar come miglior attore protagonista.
Il secondo pilastro, ancora più importante del precedente, su cui poggia l'intera struttura del film, è la sceneggiatura di Alan Ball, che ha co-prodotto il film insieme con la Dream Works di Steven Spielberg. È un lavoro quasi perfetto e senza sbavature, con una struttura compatta e un ritmo narrativo ben calibrato ed incalzante. I dialoghi non sono mai banali né gratuiti. Essi alternano sapientemente battute intelligenti, che suscitano il riso, a considerazioni amare e di carattere esistenziale. Mantiene sempre un perfetto bilanciamento fra lo sguardo del perdente ed il suo desiderio di rivalsa, fra la considerazione filosofica e quella sociale, fra la riflessione apparentemente più profonda e la frase di facile presa sul pubblico.
Anche le prove degli altri attori sono tutte di buon livello. In particolare risulta assai convincente Annette Bening nel ruolo della moglie di Lester, donna frustrata in frenetica ricerca di migliorare il proprio ruolo sociale, vittima delle mode e dello stile di vita medio-piccolo borghese.
Ottima l'interpretazione di Chris Cooper nel ruolo del colonnello Frank Fitts, ossessivo e represso padre padrone, paranoico e omofobo, che cerca di nascondere a se stesso la propria omosessualità latente. Assai meno convincente l'interpretazione di Wes Bentley nei panni di Ricky Fitts, figlio del colonnello, un ragazzo con la reputazione di disadattato e di malato mentale, che invece appare più savio di tutto quel del mondo, che ruota intorno a lui. Personaggio interessante, ma l'attore è eccessivamente rigido e poco espressivo.
Brave Mena Suvari nel ruolo della lolita che darà a Lester la forza di cambiare la propria vita, e Thora Birch, adolescente introversa e scontenta di se stessa e della propria famiglia.
La regia dell'esordiente, ma con una valida carriera teatrale alle spalle, Sam Mendes, all'epoca trentaquattrenne, non presenta particolari guizzi creativi, ma è decisamente di buon livello specie per un'opera prima. La formazione teatrale di Mendes risulta evidente e si appalesa in varie scene, come quella del pranzo in casa Burnham, e nell'abilità e nella cura dimostrate nel dirigere gli attori.
Sono perfettamente costruite e visivamente seducenti tutte le sequenze oniriche, che vedono Angela protagonista delle fantasie erotiche di Lester.
Si noti, tuttavia, come la regia di Mendes segua scrupolosamente le direttive generali contenute nella sceneggiatura. Ad esempio la sopraccitata sequenza del pranzo in casa Burnham risulta uno stereotipo e, infatti, trova un suo analogo corrispondente, un doppione pressoché identico, nel successivo film diretto da Mendes "Era Mio Padre" ("Road to Perdition", 2002), quando egli ci mostra la famiglia Sullivan a tavola.
È perfetta la fotografia curata da Conrad L. Hall. Essa gioca molto con i colori. Fra tutti domina incontrastato il rosso, da sempre colore vitale, simbolo indiscusso del desiderio e della passione, immagine perfetta delle pulsioni di vita freudiane. Lo ritroviamo nella porta di casa Burnham; nelle rose (l'american beauty del titolo) e nei loro petali quando questi ricoprono il corpo di Angela, sia esso disteso sul soffitto sopra il letto di Lester oppure immerso nella sua vasca da bagno; nella carrozzeria dell'auto sportiva acquistata da Lester con la sua liquidazione; nei mattoni del muro che fa da sfondo al filmato in cui vediamo una busta di plastica librarsi nell'aria con una leggerezza quasi metafisica; nel sangue del protagonista, che schizza sulle mattonelle bianche e forma una pozza sul tavolo della cucina, anch'esso bianco.
Sono ottime le musiche del bravo Thomas Newman, che accompagnano le immagini in modo sobrio e mai sopra le righe.
Si noti tuttavia che buona parte del cast artistico, che si è dimostrato complessivamente eccellente, risulta essere una seconda scelta: la produzione, infatti, aveva prima offerto la regia a Terry Gilliam; il ruolo di Lester Burnham era stato proposto a Jeff Daniels, a Chevy Chase e a Tom Hanks; per la parte di Angela Hayes (Mena Suvari) era stata contattata Kristen Dunst.
Si è voluto evidenziare questo fatto perché conferma quanto affermato precedentemente, ossia che la sceneggiatura è il principale punto di forza di questa pellicola. Essa possiede le caratteristiche della prevalenza e della dominazione assorbente su tutte le altre componenti del film, ed era già stata scelta dalla produzione indipendentemente dal cast artistico, che in certa misura era stato reputato fungibile. Questa considerazione ci permette di allacciarci al secondo piano su cui verte la nostra analisi, ossia quello contenutistico.
La sceneggiatura scritta da Alan Ball è tanto abile e sapiente, quanto furba e ruffiana. L'autore presenta al pubblico una rassegna di personaggi eterogenei e stereotipati, che vive un coacervo di problematiche piuttosto banali in cui ciascuno di noi può trovare una situazione in cui identificarsi.
Ripetendo quanto già accennato prima, cerchiamo di analizzarli con una rapida carrellata.
Lester Burnham è un quarantenne in crisi e si considera un perdente. Svolge un lavoro demotivante e castrante, che gli impedisce di affermare la propria personalità individuale. Vive accanto ad una donna, che ormai non ama più e che non lo ama. Desidera riscoprire se stesso e abbandonare quell'immagine sociale, che non gli corrisponde più. S'invaghisce di una ragazza, coetanea di sua figlia, e tale attrazione sarà la chiave di volta che gli permetterà di cambiare il proprio stile di vita. In altre parole abbiamo un uomo frustrato, che cerca di riscoprire se stesso.
Carolyn Burnham è una moglie ed una madre insoddisfatta, la cui preoccupazione principale è la costruzione di una stereotipata immagine sociale, che le permetta un'ascesa di classe. Il lavoro è per lei lo strumento cardinale di autoaffermazione, lo vive con eccessivo assorbimento e le ingenera frustrazione. In sintesi è una quarantenne isterica ed insoddisfatta, che vede aprirsi davanti a sé le porte della vecchiaia. Inoltre è descritta senza nessun vero approfondimento psicologico. È caricaturale ed estrema, senza nessuna connotazione positiva.
Jane Burnham è un'adolescente insicura e insoddisfatta, che non ama il proprio corpo né la propria famiglia. Classico paradigma di conflitto generazionale.
Angela Hayes è un'adolescente, che cela le proprie insicurezze e le proprie paure dietro la costruzione di un'immagine aggressiva, disinvolta e disinibita. Si finge bella per paura che il mondo scopra che non lo è affatto.
Il colonnello Fitts è un uomo tutto d'un pezzo, rigido, duro, ben pensante, omofobo, violento psicologicamente e fisicamente. Sclerotizzato sulle proprie posizioni e sulle proprie vedute limitate, nemmeno a dirlo colleziona anche armi ed ornamenti nazisti (nell'immaginario collettivo, simbolo del male per eccellenza). Un cliché dall'inizio alla fine, una macchietta, un personaggio senza niente di positivo, senza un briciolo di umanità, né uno spiraglio di redenzione.
Ricky Fitts è un adolescente, che ha già trovato la propria dimensione. Ha saputo costruire un'immagine sociale, quella che gli è richiesta, ma vive come meglio gli aggrada. Affronta tutto con calma e semplicità, tuttavia è insoddisfatto e desidera fuggire da quella vita.
In sintesi tutti i personaggi sono insoddisfatti e desiderano qualcosa di diverso da ciò che possiedono, una vita differente da quella vissuta.
Ed è con questi personaggi che Alan Ball compie la grande magia. Egli finge di raccontare una storia di rottura, caustica e corrosiva, che attacchi tutti i miti della società occidentale in senso lato e di quella americana in modo peculiare. Ma questa è una grandissima bugia. Ball non attacca niente di niente.
Prima sembra presentarci la famiglia come un'istituzione nefasta, un coacervo di frustrazioni e di violenze, siano esse solo psicologiche o addirittura fisiche, ma nelle sequenze conclusive del film essa torna ad avere un valore positivo e salvifico. Si pensi alla fotografia di famiglia che Lester sta guardando subito prima dell'esplosione del colpo di pistola e tutte quelle immagini che rievoca immediatamente dopo. E insieme con la famiglia si esaltano anche tutti quei valori tradizionali che l'accompagnano, come quello della verginità o quello dell'inammissibilità morale di un atto sessuale (scampato miracolosamente) fra un quarantenne e una ragazza, che potrebbe essere sua figlia.
"American Beauty", sembrerebbe voler anche affrontare il problema sopraccitato del conflitto generazionale, ma possiamo dire che lo faccia davvero? Certo esso è ben descritto, ma ad un'analisi più attenta si noterà come non vi sia nessuna vera indagine sulle cause, che lo hanno prodotto, e questo perché? Perché i personaggi principali contro cui gli adolescenti si ribellano (il colonnello Fitts e Carolyn Burnham) sono grotteschi e caricaturali, dei modelli negativi così estremi da risultare improbabili. E non si spiega, per esempio, perché con tutti i soldi accumulati attraverso la sua attività di pusher e con tutti i pugni ricevuti dalle paterne mani, Ricky Fitts non avesse già abbandonato l'ambito familiare all'inizio, anziché alla fine, del film.
Si attacca anche quella concezione, che vede attribuire al lavoro un ruolo di centralità nella vita. È meglio un lavoro semplice e deresponsabilizzato, che consenta meramente di guadagnarsi il pane senza alcuna pretesa di ascesa sociale. E questo sembrerebbe l'attacco più duro e corrosivo contro la società americana e contro lo yuppismo (si pensi alla sgradevole figura di Brad Dupree e a come questa viene brillantemente esorcizzata dalla spregiudicatezza del "nuovo" Lester Burnham). Ma il film è del 1999. Gli yuppy sono invecchiati, gli anni ottanta sono tramontati. "American Beauty" non distrugge i miti americani, bensì si limita a seppellire quei miti che appartengono già al passato per abbracciare quelle istanze più nuove, nate proprio intorno alla fine degli anni novanta e oggi già a loro volta sorpassate.
Si parla di omosessualità in maniera apparentemente sobria e normale.
Si pensi ai due professionisti, coppia omosessuale, vicini dei Burnham. Eleganti, gentili, raffinati e ben educati, sono loro a dare il benvenuto nel quartiere alla famiglia Fitts. E ancora attraverso la caricaturale figura del colonnello Fitts si condanna l'omofobia.
Un'immagine della coppia omosessuale dichiarata come un qualcosa di ormai socialmente accettato e perfettamente integrato. Ne siamo davvero sicuri?
Tutto quello a cui assistiamo è solo una furbissima serie di cliché e di luoghi comuni, volti ad una captatio benevolentiae di raro buonismo, finalizzata ad ingraziarsi il consenso di un pubblico vasto ed eterogeneo.
È una grammatica cinematografica elementare, quella di "American Beauty", che non sensibilizza a nessuna vera problematica, ma che mira semplicemente a coniugare nel modo più felice possibile l'esigenze dell'industria cinematografica con le richieste del pubblico di massa.
Stiamo parlando di un prodotto sapientemente costruito al tavolino.
Non c'è estro creativo, non c'è un messaggio da raccontare. Si tratta solo di un prodotto, un ottimo prodotto, da consumare. Un prodotto che è anche paradigma e sintesi del cinema hollywoodiano e che ad esso si riferisce attraverso citazioni esplicite o meno. I vicini dei Burnham che hanno traslocato, lasciando il posto alla famiglia Fitts, si chiamavano Loman, come dice chiaramente Carolyn. Vista la struttura e l'impostazione del film, questa non sembra proprio essere una coincidenza, bensì un chiaro riferimento al dramma di Arthur Miller "Morte di un Commesso Viaggiatore", di cui, in certa misura, la sceneggiatura di Alan Ball sembrerebbe volersi considerare erede spirituale.
Vediamo quella scena, in vero molto ruffiana, della busta di plastica che si libra nell'aria alla stregua della piuma del francamente più sincero "Forrest Gump". Ascoltiamo un racconto narrato da un morto proprio come in "Sunset Boulevard". Ma se il film di Wilder è un capolavoro che non potrà mai scomparire, poiché va al di là di qualsiasi moda, "American Beauty" è un collage delle mode di fine anni novanta, tanto che oggi, a soli otto anni dalla sua uscita nelle sale, appare già essere un prodotto che comincia risentire della propria datazione e sembra essere destinato a quella sorte descritta da Oscar Wilde nei suoi Aforismi.
Ciò chiarito, resta il fatto evidente che "American Beauty", inteso come film d'intrattenimento, è piacevole e godibilissimo. Il ritmo è serrato e senza mai momenti sotto tono o noiosi. I dialoghi sono veloci e, in alcuni casi, intelligenti e molto divertenti. Gli interpreti, come già detto ma mai abbastanza ribadito, sono eccellenti. Si tratta di una commedia drammatica che affronta con estrema leggerezza, proprio come la celebre busta di plastica mossa dal vento, gli eventi (o meglio solo alcuni eventi ordinari, fra cui anche la morte) della vita. La messa in scena è complessivamente di ottima qualità sia artistica, sia visiva.
Se non siete d'accordo con quanto affermato e, per caso, consideraste la lettura di questa recensione tempo perso, allora certo non troverete conforto nel detto Hippy citato da Lester Burnham nel corso del film:
"Oggi è il primo giorno di quello che resta della vostra vita".
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 28/05/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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