Recensione bella di giorno regia di Luis Buñuel Francia, italia 1967
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Recensione bella di giorno (1967)

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locandina del film BELLA DI GIORNO

Immagine tratta dal film BELLA DI GIORNO

Immagine tratta dal film BELLA DI GIORNO

Immagine tratta dal film BELLA DI GIORNO

Immagine tratta dal film BELLA DI GIORNO

Immagine tratta dal film BELLA DI GIORNO
 

Non sono nuvole i nostri sogni; che diano, sempre in partenza, sereni consigli o rimproveri tempestosi.
Come la polvere, aleggiano senza risposte dentro le nostre case.
Hanno le altitudini dei suoli e più che ai paesaggi, agli alberi, alle serate che s'aprono al di là delle finestre, assomigliano a quei riflessi, diafani e raccolti, che sovrappongono a tutto i nostri volti.

.....

Da lontano un landò,
lungo il viale d'un parco,
annunciato dalle sonagliere:

potrebbe parere un inizio consueto. Ma chi conosce il cinema di Buñuel intuisce bene che tale non si tratta: sa che quel "lontano" è un vasto ignoto; e che l'aspetto aristocratico e antiquato del quadro non è il frutto di uno spirito nostalgico: la carrozza trasporta e introduce dentro al film, oltre che la bella Séverine e il suo gentile marito, tutto un traino di codici e d'intuizioni comiche e surrealiste che torneranno a ripetersi nell'arco della narrazione, e che fanno parte ormai da tempo della poetica e del linguaggio buñuelliani.
Poco ci si stupisce dunque se la conversazione tra i due, che inizia coi toni pacati d'un melodramma d'appendice, immediatamente svolti in modo brusco e si faccia violenta; o se assistiamo, subito dopo, ad una prima scena "scandalosa"; la bella Séverine legata, per ordine del marito, e frustata dai cocchieri.
Poi la voce di lui che rivolge una domanda alla moglie assorta - ripetuta due volte, come i sostegni d'un ponte sulle due sponde: "A cosa stai pensando?" - ci transita dal sogno alla realtà, dal parco all'appartamento.

E' affermato sin da subito, quindi, come d'altronde era facile aspettarsi, che diverse escursioni nel sogno non mancheranno neppure in "Bella di giorno"; ed anzi potremmo dire che tutto il film sia un continuo intersecarsi dell'una nell'altra dimensione - e un mutuo corrispondersi - e che esse vengono tenute insieme mediante sottili e talvolta quasi inesistenti passaggi.

Ma più che altrove il sogno di Buñuel si fa qui concreto: si veda infatti come egli filmi le sequenze oniriche esattamente nello stesso modo in cui filma quelle reali, e come i suoi sogni, sempre privi di componenti fantastiche, si limitino a mischiare e ridisporre ironicamente gli elementi del reale ottenendo, in tal modo, situazioni sì improbabili, ma mai completamente impossibili: come la sedia a rotelle che s'incontrerà ad un incrocio fuori dall'ospedale; effettivamente essa non ha nulla di curioso in sé; è però insolito come si trovi lì, quale presagio, abbandonata e rivolta verso chi la guarda, quasi a suggerirgli una scomoda seduta anticipata.

E' chiaro che non siamo più nei pressi dell'irriverenza sfrenata ed eversiva delle prime opere, e nemmeno alle soglie di quel dominio dell'assurdo, maestoso negli ultimissimi lavori, in cui saremo invitati ad entrare come ospiti straniti; tanto meno, c'è concesso di assistere ad un sogno che assomigli a un sogno, come capitava ad esempio nella splendida sequenza onirica che stava incastonata ne "I figli della violenza".
Ma ciò non deve portare a intendere "Bella di giorno" come un'opera di adagiamento. Buñuel è ormai un artista ben navigato e un uomo più che maturo (ma non per questo fiaccato), e bene ha imparato a dosare e a coordinare i propri impulsi surrealisti: il film in questione ha quella struttura stranamente formale proprio perché atto a rodere la normalità dal suo centro; si traveste da borghese per avere più facile accesso - con "fascino discreto" - e adotta il verbo della borghesia per poterle meglio dire, sempre con la propria semantica, ciò che ha da dirle.

E' un film quanto mai francese, raffinato, distinto, che si muove cautamente con indosso abiti eleganti, bello ed enigmatico come Séverine (una Deneuve già esperta nel ruolo della stralunata, dopo l'ottima prova sostenuta in "Repulsion" di Polanski); e come ella è freddo, distaccato, composto, impenetrabile sino in fondo, in continuo bilico tra realtà e sogno.

Tuttavia, dopo l'esperienza sognata nel parco, la vicenda si trasferisce per qualche tempo nella dimensione reale, e come previsto dai criteri di una narrazione classica, ci vengono presentati alcuni personaggi principali - tra i quali Husson, un amico del marito che ronza attorno alla protagonista come una fastidiosa coscienza - e dove soprattutto veniamo a conoscenza della strana natura, estremamente e sospettosamente casta, del rapporto matrimoniale tra Séverine, moglie fragile e inibita, e Pierre, medico probo, cortese, premuroso, paziente sino all'inverosimile - e infine ingenuo e impotente.

Ciononostante, i più attenti avranno notato come ad esempio la caduta del vaso di fiori e della boccetta di profumo non siano solo la conseguenza dei gesti distratti e impacciati della protagonista, ma come già certi piccoli incidenti vengano esposti quali simboli, per ora di semplice lettura, d'una lenta ed esiziale rottura; quasi Buñuel volesse, inizialmente, lasciarci facili indizi per incoraggiarci a seguirlo sino a quel punto in cui, guardandoci a destra e a sinistra, saremo finalmente consci di esserci smarriti.

Ma incastrate in questo primo periodo, troviamo due brevissime sequenze; quasi fulminanti, troppo essenziali e recondite per durare più di qualche fotogramma: due ricordi d'infanzia di Séverine, il primo dei quali mostra le carezze che un uomo misterioso dedica a lei bambina.
E nel momento in cui la protagonista sale le scale che portano alla casa di Madame Anais, ecco comparire il secondo - la bambina che rifiuta l'offerta dell'ostia durante la prima comunione - mentre lo sguardo dell'adulta si volta (rendendoci intanto un esempio di quanto sia importante e sempre surrealisticamente funzionale il lavoro di montaggio nell'opera del regista), tra pianerottolo e pianerottolo, quasi una porta intermedia si fosse aperta dall'inconscio sulla scena.

Ora all'interno della casa di piacere, tra quelle mura segrete e spiate, transito di margini e periferie nel centro di Parigi, la vicenda non si chiude ma si apre. E non solo perché i sogni di Séverine possono adesso finalmente liberarsi, ma soprattutto in quanto i clienti che frequentano quelle stanze portano con loro ventate che narrano di tutto un mondo crudelmente ironico che sta al di fuori e che, se non attraverso i loro tratti caricaturali, non ci è dato in altro modo di scoprire.
Si veda il primo cliente brillante e pancione, o il ginecologo dai baffoni e gli occhialoni da comico, o l'enorme cinese che parla una lingua assurda e che porta con sé una scatoletta dal contenuto spaventoso - qualcosa ch'emette un ronzio, cosa mai potrebbe essere? Uno strumento? Un piccolo animale? - che ci rimane misterioso; sembrano questi essere personaggi assemblati prendendo qua e là qualche pezzo da dietro il palcoscenico: eppure - nel loro essere bizzarri - restano tremendamente reali, deformi umanamente, psicologicamente mostruosi.

Ma anche la casa, che Séverine varca con abiti chic tanto ammirati, ha i suoi propri abitanti, più disinvolti e meno eleganti, che ne stabiliscono per assurdo la normalità e il luogo famigliare: Madame Anais, coi suoi modi imperativi da madrina premurosa e severa; le ragazze, che tra un appuntamento e l'altro ammazzano il tempo giocando a carte (spesso il "vizietto" delle carte, signorile e popolare allo stesso tempo, ricorre nei film di Buñuel), fumando o compilando parole crociate (dove enigmatico compare il nome di Enea, l'eroe che fuggì dalla città in fiamme caricandosi il padre sulle spalle); e infine l'umile domestica, che porta dentro la casa, assieme alla figlia, quella quotidianità proletaria e comune, e che riceve dalla compassione dei visitatori (e dunque del regista) alcune mance, generose e intanto meschine.

Indubbiamente assistiamo ad una serie di scene di sesso deviato, feticista e masochista. Ma sembra lecito credere che il film finga di essere canonicamente scandaloso soltanto nella materia che palesa; e insomma che Buñuel ci faccia credere che "l'indignante" sia di quel tema, troppo delicato secondo la moda e la morale comune, che tanto incuriosisce lo spettatore e allerta la censura.
In verità, ci viene da pensare che questo non sia che un altro semplice e geniale travestimento, e che lo "scandalo" a cui il regista si riferisce sia ancora più complesso e profondo.

Buona parte della critica ha citato, e non a sproposito, accanto a quest'opera i nomi di Freud e De Sade. Qui ci limiteremo a dire che quello del sesso è sì il motivo predominante del film, ma che allo stesso tempo sembra costituirne un involucro dentro cui sono contenuti, ancora pulsanti e non meno centrali, tutti quanti i temi cari al regista.
Basti pensare come a subire i tagli più netti, ancora una volta, prima di quelle erotiche o violente, furono le scene considerate blasfeme.
E' altresì vero, ad ogni modo, che il racconto psicologico di Séverine è totalmente interessante anche fuori da una struttura surrealista, e che l'entrata nella casa - dove viene accontentata quella sua pulsione masochista - sancisca in lei una sorta di liberazione, e quindi assoluzione, che l'aiuta ad avvicinarsi mentalmente al marito e a guarirla da quello spleen, o stato d'inibizione, che la intorpidiva.

Adesso la sua seconda identità ha finalmente un nome, Bella di Giorno, che, si veda, agisce entro un tempo ben stabilito, dalle 14 alle 17, come per una seduta psichiatrica, e in un orario diurno dove generalmente ci si trova di rado a sognare. Qui le sue fantasticherie si sprigionano, e via via quel mondo di rifiuti e prostituzione si fa strada nella psiche lordandola e ripulendo, di contro, il suo vissuto.

In opposizione al gusto aristocratico del primo sogno nel parco, il secondo è già decisamente il più "sporco": c'è del fango e ad annunciarlo, al posto delle melanconiche sonagliere, si sente il suono dei campanacci di una mandria di bovini, dove Buñuel si diverte probabilmente a propinarci una falsa morale: quelle bestie hanno come nome Rimorso; l'ultima, Espiazione.

E nello svolgersi di questi sogni, prendiamo allora coscienza di quelle intersezioni di cui si parlava - o infiltrazioni, o sovrimpressioni - dove spesso elementi onirici vengono introdotti in situazioni reali o viceversa.
Il suono delle sonagliere ad esempio, nelle mani dell'enorme cliente cinese, diventa il richiamo al momento erotico e sicuramente perverso, o le onde del mare che facevano da sfondo ad una conversazione coniugale tra Séverine e il marito, funzionano da commento sonoro a quel sogno in cui a duellare sono Pierre e Husson, che per assurdo sono gli unici due veri amici e non rivali della storia.

Ma particolarmente interessante in tal senso troviamo il terzo sogno (sempre ammesso che del terzo si tratti), decisamente dall'atmosfera decadente, in cui Bella di Giorno accetta di far visita ad un distinto cliente necrofilo.
Il brano potrebbe benissimo, e dovrebbe, far parte delle vicende reali, ma alcuni elementi ci suggeriscono il contrario: come il landò del primo sogno che accompagna la protagonista alla villa lungo il viale del parco; o il fatto che l'episodio non si svolga tra le mura della casa di Madame Anais, e non abbia alcuna interazione con gli altri accadimenti e personaggi del reale, rimanendo isolato nei suoi confini vagamente onirici.
Di certo, possiamo dire d'assistere a quella sorta di macabra cerimonia, più accosta alla morte piuttosto che all'eros, che non è nuova nell'opera dell'autore spagnolo.

E allora a questo punto, specie per chi ha già avuto modo di assistere agli ultimi lavori, ci si aspetterebbe che la dimensione reale collassi definitivamente, lasciando che la forza onirica straripi in un alluvione di situazioni incomprensibili. Ma Buñuel dimostra ancora una volta di non riuscire proprio ad essere banale: il racconto riprende a procedere sopra binari consueti, per strade cinematograficamente più conosciute. Addirittura s'inventa un triangolo amoroso, quasi a voler dare adito a chi voleva "Bella di Giorno" davvero come un film commerciale, fatto principalmente per incassare quattrini.

Ma leggiamo in Marcel un registro nuovamente ricco: in egli, nelle sue cicatrici e nella sua dentatura di metallo, nella sua espressione sfrontata e nel suo bastone da cui estrae un pugnale, c'è attorno tutta una cornice di sobborghi contraria a quella perbenista e borghese da cui proviene Bella di Giorno.
C'è una crudeltà vera, vissuta nelle carni. C'è tutto ciò che la attira e la spaventa. C'è la delinquenza, e il delitto. C’è un "oscuro oggetto del desiderio", in quel "figlio della violenza". E infine sì, c'è anche una violenta passione.

L'inquadratura che indugia, durante l'atto amoroso, sulle calze bucate di Marcel che si strofinano sulle scarpette all'ultima moda e salgono lungo le collant di Bella di Giorno, non ha nulla di geniale, ma in Buñuel la troviamo sorprendente; sappiamo che fa parte di un momento critico. O meglio destinato a non durare; e quando Husson sorprende Séverine nella casa di Madame Anais, allora quel sogno è davvero finito.
Seguiranno le scenate di gelosia, le liti furenti, le rincorse, lo scontro tra Marcel e Pierre che condurrà il primo alla morte e il secondo alla sedia a rotelle.
Seguirà, dilatata dal silenzio, la confidenza fuori campo di Husson a Pierre, deciso a raccontargli tutto della moglie. Non è la prima volta che Buñuel ci nega l'ascolto di un dialogo cruciale, ma in questa occasione non troviamo ironia o sadismo d'autore, ed anzi quell'occultamento ci crea vera tensione, disagio, senso di colpa, ci sentiamo sordi impotenti come Pierre è ora cieco e paralizzato, e passeggiamo nervosamente e ci asciughiamo il sudore delle mani con Séverine.
Torna alla mente allora, e qui si realizza, quella falsa e ingenua morale dei bovini, dove tutti si chiamavano Rimorso e l'ultimo Espiazione.
Eccola dunque l'espiazione, dietro gli occhiali scuri di Pierre. Non più vedente, totalmente infermo, costretto sopra una sedia a rotelle, destinato a vegetare accanto alla colpa che da brava mogliettina ricama e accudisce il povero marito invalido.

In fondo un tale epilogo, in cui il troppo buono, caritatevole, comprensivo, generoso spirito viene ricompensato con un cinico ed efferato castigo, non è tanto dissimile da quello che avevamo già visto in opere quali "Viridiana", o nei Cristi di "Simon del deserto" e "Nazarin", o in genere in altri momenti del percorso buñuelliano: ma troviamo qui più crudele la punizione, oltre che per la sua gravità, proprio perché la vittima era ignara dei colpevoli ed estranea alle colpe.

Nelle ultime sequenze la telecamera s'avvicina in più punti al corpo inerte di Pierre, e ci aspettiamo da lui una reazione impossibile, un gesto stizzito che intervenga o un grido di rabbia: ma egli si alza sorridente - un'ultima grande sorpresa - e rivolge alla moglie la stessa domanda che le porse in principio alla pellicola: "A cosa stai pensando?".
Lei mente nuovamente, e dopo avere dichiarato di non sognare più, s'affaccia dalla finestra e vede il parco - quasi la casa si fosse trasferita dentro il sogno o il sogno si fosse espanso attorno alla casa - attraverso cui transita, salutato dalle sonagliere, il landò, ora vuoto come la carrozzina trovata a quell'incrocio fuori dall'ospedale.

L'incipit e l'excipit si specchiano indolenti, in tal modo, attanagliando tutto il film in un sogno bivalente: una serenità terribile e assurda s'è instaurata nella coppia, tutto è stato breve come un momento di distrazione, o è stata l'immaginazione della bambina che rifiutava l'ostia ad aver figurato, soltanto, un suo futuro vago e capriccioso...
E infine pare quasi di vederlo, tristemente ironico, contemplando il parco adesso deserto, il volto del vecchio Buñuel che si sovrappone sopra a tutto.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 18/03/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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