Recensione caccia spietata regia di David Von Ancken USA 2006
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Recensione caccia spietata (2006)

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locandina del film CACCIA SPIETATA

Immagine tratta dal film CACCIA SPIETATA

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Immagine tratta dal film CACCIA SPIETATA

Immagine tratta dal film CACCIA SPIETATA
 

Arrivato in Italia con due anni di ritardo rispetto alla sua prima apparizione americana nel 2006 e distribuito in poche sale in tutto e per di più con un'improponibile traduzione del titolo originale ("Seraphim Falls"), che fa pensare più ad un action-movie di serie B piuttosto che ad un film che si muove nel solco della tipologia di uno dei generi fondanti del cinema americano, e più in generale di quello occidentale, "Caccia spietata" è un film duro, cruento, sanguigno e sanguinolento, un new-western inusuale (almeno nella sua accezione odierna), che racconta paradossalmente la più usuale delle storie western: la caccia all'uomo per vendetta.
Un rewind-western, dunque, intenso e appassionante, cupo ed eroico, metafisico a tratti.
Un film che lascia il segno come pochi, girato con rigore quasi esistenziale e che, dopo anni di oblio, segna la rinascita di un genere che ha acceso il nostro immaginario eroico-avventuroso, e che si è progressivamente evoluto, passando dalla rappresentazione tipicamente americana del mito della frontiera, ad una serie infinita di generi e sottogeneri, filoni e sottofiloni, con caratteristiche sempre più prettamente autoriali e di nicchia.

Il merito di ciò è da attribuire al giovane ed eclettico regista David Von Anken (qui anche co-sceneggiatore), al suo primo lungometraggio.
Formatosi alla scuola TV (sue sono le regie di un cortometraggio di successo e di alcune serie televisive di qualità come "NY", "CSI", "Numb3rs" e "Californication"), il giovane regista ha saputo affrancarsi dalla tecnica televisiva, costituita essenzialmente da azioni rapide e sintetiche, sottolineate da un linguaggio verboso ed esplicito, in favore di uno stile personalissimo (che ricorda molto il cinema di Sergio Leone) e molto lontano dai canoni TV, che si esplicita attraverso una struttura narrativa che tende a privilegiare l'ostilità della natura selvaggia o gli istinti primordiali dell'animo umano, sui dialoghi (qui ridotti all'essenziale e costituiti principalmente dai mugugni e dai lamenti degli uomini, dai rumori e dai silenzi della natura), e sulla classica contapposizione tra buoni e cattivi (impossibile distinguere chi sia l'uno e chi l'altro), o tra bianchi e indiani o, ancora, sulla dura fatica dell'uomo per la conquista del selvaggio west.

Oltre a ciò c'è l'intelligenza intuitiva del regista, che ha saputo, usando un tono sommesso e antiretorico, fare del film un inno pacifista e contro le violenze di ogni genere, ribaltando ed attualizzando la morale e le caratteristiche fondante del genere in qualcosa di più profondo ed esistenziale, che dà senso all'opera e trasforma una storia cruenta e spietata di vendetta in una storia malinconica di sconfitte, in cui inseguito e inseguitore dovranno fare i conti con le proprie coscienze e con la consapevolezza che è labile il confine tra buono e cattivo e che non c'è niente di glorioso nella rappresaglia, ma solo odio e sangue che non salvano le vite, ma generano altro odio e altre vendette.

Siamo nel 1868, subito dopo la fine della Guerra Civile e prima della "conquista del west".
La guerra che ha lacerato il paese è appena terminata, ma non per tutti, anche perchè non tutti gli odi sono stati sepolti e molte vendette aspettano ancora di essere consumate.
Due uomini che hanno guerreggiato su fronti opposti, devono ancora combattere la loro guerra privata e devono regolare un conto in sospeso tra di loro. Entrambi hanno perso tutto in guerra; rimangono solo la voglia di vendetta dell'uno e l'istinto di sopravvivenza dell'altro.
Un conto che si è aperto a Seraphim Falls (il luogo in cui è avvenuta la tragedia che innesca la vicenda e che dà il titolo originale al film) in tempo di guerra, non per motivi ideologici ma per un fatto personale, e che ancora deve essere risolto.

Due uomini distanti, spietati, diversi, l'uno contro l'altro ma uniti dallo stesso, doloroso, passato e dalla stessa, ferrea, morale.
Due uomini, due ex militari, il Capitano nordista Gideon, l'inseguito, e il Colonnello Morsman Carver, sudista, l'inseguitore che gli dà la caccia. Gideon, un sorprendente e irsuto Pierce Brosnan, è solo, ferito, disarmato, privo di mezzi di sostentamento e di locomozione, ma che trova nella forza della disperazione l'energia necessaria per la sopravvivenza; Carver, un altrettanto bravo Liam Neeson, freddo, determinato, implacabile, l'uomo che lo bracca in un infinito inseguimento e che ha assoldato un gruppo di cacciatori di taglie con il chiaro intento di ucciderlo o di farlo uccidere, ma che di minuto in minuto viene decimato dalla fatica, in mezzo alla natura selvaggia e dall'uomo di cui seguono le tracce; mentre sconosciuto (anche se intuitivo) rimane il motivo scatenante di cotanto odio, che si rivelerà solo alla fine, in un breve, non invasivo, chiarificatore flashback.

L'inseguimento e la caccia iniziano tra le montagne innevate del nord, tra foreste incontaminate e cascate impetuose, in un ambiente raggelato e raggelante, che non fa sconti e non riesce ad ibernare nè l'odio e neppure la drammaticità metaforica e tragica dei personaggi. Poi gli scenari cambiano e accompagnano la lunga fuga del capitano verso sud, in un susseguirsi di fiumi, rapide, foreste, praterie, sudore e polvere, caldo e afa del deserto californiano, mentre il drappello che lo insegue si fa via via sempre più esiguo e la distanza che li separa si riduce sempre più, così come si assottigliano sempre più tutti gli orpelli che ruotano attorno alle loro vite, i mercenari, i cavalli, il cibo, l'acqua, fino al momento tanto atteso dello scontro finale, l'epico duello che chiuderà definitivamente la partita.
E allora si ristabiliscono le regole, si ristabilisce il codice cavalleresco per permettere alla storia di arrivare alla sua naturale evoluzione, dall'esito significativamente speculare agli esiti dei prodotti del genere, che segnerà due metaforiche sconfitte.
Così come metaforico è l'incontro allucinanante, in pieno deserto, poco prima del duello finale, che i due fanno con un indiano e con una Anjelica Huston, misteriosa venditrice ambulante di elisir, che proporrà loro un patto dal sapore vagamente mefistofelico.

La bella fotografia di John Toll (Oscar per "Vento di passioni" e "Braveheart") e la colonna sonora di Harry Gregson contribuiscono a fare di "Caccia spietata" un'opera di livello superiore, ed anche se non perfetto (almeno secondo i canoni dei vecchi classici del passato) è un western crepuscolare, ricco di essenzialità e di rimandi sofisticati, che cerca di fornire una nuova iconografia epica della vendetta e degli istinti primordiali della natura umana, che non è più esaltazione massima del mito della virilità e della giustizia, ma costringe ad arrivare all'essenza di se stessi e della propria coscienza.

In chiusura ci piace ricordare alcune sequenze veramente memorabili, come quando Gideon/Brosnan coglie di sorpresa uno degli uomini di Carver nascosto dentro la carcassa del suo cavallo defunto, oppure quando lo stesso Gideon, quasi assiderato, mezzo nudo, tra la neve, si toglie una pallottola dalla spalla, cauterizzandosi la ferita, o, infine, quando immerge le mani nel ventre di un uomo appena ucciso per riscaldarle ed evitare che si congelino. Sconvolgente e straniante.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 26/05/2008

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